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Avendo ignorato quell’aspetto importantissimo del proprio dono fino al momento della perdita, Alder rifletté su di esso, chiedendosi in cosa consistesse di preciso. Era come conoscere la strada da seguire, era come sapere la direzione di casa. Non era una cosa che si potesse identificare o di cui si potesse dire molto, ma era un collegamento con tutto il resto. Senza di esso, Alder era desolato. Inutile.

Ma almeno non faceva alcun male. I suoi sogni erano fugaci, insignificanti. Non lo portavano più in quelle lande fosche, sulla collina di erba morta, vicino al muro. Nessuna voce lo chiamava più, attirandolo nelle tenebre.

Pensava spesso a Sparviere, rammaricandosi di non poter parlare con lui: l’arcimago che aveva esaurito il suo potere, e dopo essere stato grande tra i grandi, viveva in povertà e in solitudine. Ma il re desiderava ardentemente tributargli gli onori che meritava; la povertà di Ged era frutto quindi di una scelta. Forse, secondo Alder, le ricchezze e il rango elevato rappresentavano solo qualcosa di ignominioso per un uomo che aveva perso la vera ricchezza, la propria via.

Onice era chiaramente dispiaciuto di avere indotto l’amico a fare quello scambio. Era sempre stato gentile con lui, però adesso lo trattava con un rispetto dietro cui si celavano i sensi di colpa, mentre il suo atteggiamento nei confronti del mago di Paln era diventato più freddo. Alder, dal canto suo, non provava risentimento verso Seppel e non diffidava delle sue intenzioni. I vecchi poteri erano i vecchi poteri. Li si usava a proprio rischio. Seppel lo aveva informato del prezzo da pagare, e lui lo aveva pagato. Non si era reso conto appieno dell’entità di tale prezzo; ma non era colpa del mago. Era colpa sua, perché non aveva mai dato al proprio dono il suo vero valore.

Così Alder sedeva insieme ai due maghi, sentendosi una moneta falsa tra le monete d’oro. Li ascoltava con estrema attenzione, perché si fidavano di lui e parlavano liberamente, e i loro discorsi costituivano un’istruzione profonda che lui da stregone non aveva neppure immaginato.

Seduti all’ombra chiara del tendone di tela, i maghi parlavano di un accordo, di uno scambio, ben più importante di quello fatto da lui perché cessassero i sogni. Onice disse più di una volta le parole della Vecchia lingua che Seppel aveva pronunciato sul tetto: Verw nadan. Mentre conversavano, a poco a poco Alder capì che il significato di quelle parole era qualcosa di simile a scelta, divisione, fare due cose di una. Molto, moltissimo tempo addietro, prima dei re di Enlad, prima della scrittura hardica, forse prima che esistesse una lingua hardica, quando esisteva solo la Lingua della creazione, a quanto sembrava, la gente aveva fatto una scelta, rinunciando a un grande potere o bene per acquisirne un altro.

Il discorso dei maghi era difficile da seguire, non perché nascondessero qualcosa, ma perché loro stessi brancolavano alla ricerca di cose perdute nel passato oscuro, nell’epoca che precedeva i ricordi. Parole della Vecchia lingua entravano necessariamente nella conversazione, e a volte Onice parlava interamente in quell’idioma. Ma Seppel gli rispondeva in hardico. Egli era parco con le parole della creazione. Una volta alzò la mano per impedire a Onice di proseguire, e di fronte all’espressione sorpresa e interrogativa del mago di Roke, disse pacato: — Le parole magiche agiscono.

Anche Sula, l’insegnate di Alder, aveva definito "parole magiche" le parole della Vecchia lingua. — Ognuna è un atto di potere — aveva spiegato. — La parola vera fa sì che la verità si attui. — Sula lesinava le parole magiche che conosceva, pronunciandole solo in caso di bisogno, e quando tracciava qualche runa particolare, non quelle comuni usate per la scrittura hardica, la cancellava subito dopo aver finito. La maggior parte degli stregoni erano altrettanto cauti, o per la volontà di custodire la propria conoscenza o perché rispettavano il potere della Lingua della creazione. Perfino Seppel, pur essendo un mago, con una conoscenza e una comprensione molto ampia di quelle parole, preferiva non usarle nella conversazione, e attenersi invece alla lingua comune che, se consentiva bugie ed errori, permetteva anche l’incertezza e la ritrattazione.

Forse quello rientrava nella grande scelta compiuta dagli uomini nell’antichità: rinunciare alla conoscenza innata della Vecchia lingua, che un tempo avevano in comune con i draghi. Alder si chiese se lo avessero fatto per avere una lingua propria, una lingua adatta al genere umano, in cui poter mentire, ingannare, imbrogliare e inventare meraviglie mai esistite prima.

I draghi parlavano solo la Vecchia lingua. Eppure si diceva sempre che essi mentissero. Era così? Se le parole magiche erano vere, com’era possibile che anche un drago le usasse per mentire?

Seppel e Onice erano giunti a una delle lunghe pause meditabonde che caratterizzavano la loro conversazione. Notando che il secondo, in realtà, più che meditare stava sonnecchiando, Alder domandò al mago pelnico sottovoce: — È vero che i draghi possono dire falsità usando parole vere?

Quello sorrise. — Questa, diciamo a Paln, è proprio la domanda che Ath fece a Orm mille anni fa, nelle rovine di Ontuego. "Un drago può mentire?" chiese il mago. E Orm rispose: "No" e poi gli alitò addosso, riducendolo in cenere… Ma dobbiamo credere alla storia, dato che può averla raccontata solo Orm?

"Gli argomenti dei maghi sono infiniti" rifletté Alder, ma lo tenne per sé.

Onice si era addormentato del tutto, il capo piegato all’indietro contro la paratia, il volto serio e teso finalmente rilassato.

Seppel parlò con voce ancor più bassa del solito. — Spero che tu non sia pentito di quanto abbiamo fatto ad Aurun. So che il nostro amico pensa che io non ti abbia avvertito con sufficiente chiarezza.

Alder dichiarò senza alcuna esitazione: — Sono soddisfatto.

Il mago inclinò la testa scura.

Alcuni istanti dopo, Alder disse: — So che cerchiamo di mantenere l’Equilibrio. Ma i Poteri della terra tengono conto di tutto.

— E la loro è una giustizia che è ardua da comprendere per gli uomini.

— È così. Io cerco di capire perché abbia dovuto rinunciare solo a quello, al mio talento, per liberarmi da quel sogno. Che legame c’è tra le due cose?

Seppel non rispose subito, poi lo fece con una domanda. — Non giungevi al muro di pietra per mezzo della tua arte?

— No, mai — disse lui, con assoluta certezza. — Non dipendeva affatto da me, non avevo il potere di andare là, proprio come non potevo impedire a me stesso di andarci.

— Allora come vi sei giunto?

— Mia moglie mi ha chiamato, e il mio cuore è corso da lei.

Una pausa più lunga, poi il mago osservò: — Altri uomini hanno perso la loro diletta sposa.

— È quanto ho detto a lord Sparviere. E lui mi ha risposto che era vero, che tuttavia il legame tra veri amanti, tra le cose umane, è quella che più si avvicina a durare per sempre.

— Oltre il muro di pietra, nessun legame dura.

Alder guardò il mago, scrutò la sua faccia mite dagli occhi penetranti. — Perché? — chiese.

— La morte spezza qualsiasi legame.

— Allora perché i morti non muoiono?

Seppel lo fissò, sconcertato.

— Chiedo scusa — fece Alder. — Nella mia ignoranza, non mi sono espresso bene. Ciò che intendo dire è questo: la morte spezza il legame dell’anima con il corpo, e il corpo muore. Torna alla terra. Ma lo spirito deve andare in quel luogo tenebroso, e conservare una sembianza del corpo, e rimanere là… per quanto tempo? Per sempre? Là nella polvere e nell’oscurità, senza luce, senza amore, senza un barlume di allegrezza? Non sopporto di pensare a Giglio in quel luogo. Perché deve stare là? Perché non può essere… — la sua voce incespicò — … essere libera?