— Perché là il vento non soffia — rispose Seppel. Aveva un’espressione molto strana, la voce aspra. — Ha cessato di soffiare, a causa dell’arte dell’uomo.
Continuò a fissare Alder, ma solo a poco a poco cominciò a vederlo. L’espressione del suo volto e degli occhi mutò. Il mago distolse lo sguardo, contemplando la bella curva bianca della vela di trinchetto, gonfiata dal vento di nord-Ovest. Poi abbassò di nuovo gli occhi sull’altro. — Amico mio, tu sai quanto me di questa faccenda — disse, riacquistando gran parte dell’abituale pacatezza. — Ma tu conosci queste cose attraverso il corpo, il sangue, il battito del tuo cuore. E io conosco solo delle parole. Vecchie parole… Quindi, è meglio che andiamo a Roke, dove forse i saggi saranno in grado di dirci ciò che dobbiamo sapere. O se non lo saranno loro, lo faranno i draghi, forse. O forse sarai tu a indicarci la via.
— Sarebbe il cieco che guida i veggenti sull’orlo del precipizio, davvero! — sbottò Alder, ridendo.
— Ah, ma siamo già sull’orlo del precipizio, e con gli occhi chiusi — disse il mago di Paln.
Lebannen constatò che la nave era troppo piccola per contenere l’enorme irrequietezza che aveva in sé. Le donne sedevano sotto il loro tendone e i maghi sotto il proprio come anatre in fila, ma lui passeggiava avanti e indietro, impaziente, tra i confini angusti del ponte. Gli sembrava che fosse la sua impazienza e non il vento a far filare la Delfino così rapida verso il Sud, mai abbastanza veloce. Desiderava che il viaggio terminasse al più presto.
— Ricordi la flotta in rotta per Wathort? — disse Tosla, unendosi a lui, mentre il sovrano si trovava accanto al timoniere, studiando la carta nautica e il mare sgombro di fronte alla prua. — Quella era una vista magnifica. Trenta navi allineate!
— Vorrei fossimo diretti a Wathort — commentò Lebannen.
— Non mi è mai piaciuta, Roke — convenne l’altro. — Non un vento o una corrente che siano autentici per venti miglia al largo delle sue coste, ma solo roba di maghi. E le rocce a nord dell’isola, non sono mai due volte nel medesimo posto. E quella città piena di imbrogli e di cambiaforma. — Sputò, con maestria, sottovento. — Preferirei incontrare di nuovo il vecchio Sanguinoso e i suoi mercanti di schiavi!
Il re annuì, ma non disse nulla. Spesso il piacere della compagnia di Tosla consisteva nella sua schiettezza: quell’uomo diceva quello che il sovrano riteneva opportuno tacere.
— Chi era il muto — chiese Tosla — l’uomo che uccise Falcone sulle mura?
— Egre. Pirata diventato mercante di schiavi.
— Ecco, sì. Ti aveva riconosciuto, là a Sorra, attaccandoti subito. Mi sono sempre chiesto come facesse a sapere chi eri.
— Lo sapeva perché una volta mi aveva catturato come schiavo.
Non era facile sorprendere Tosla, ma il marinaio guardò il re a bocca aperta; era evidente che non gli credeva, però non aveva il coraggio di dirlo, e così rimase senza parole. Lebannen si godette la scena un minuto, poi ebbe compassione.
— Quando l’arcimago mi portò con sé a dare la caccia a Cob, andammo a sud, prima. Nella città di Hort, un uomo ci tradì, consegnandoci ai mercanti di schiavi. Stordirono l’arcimago con un colpo alla testa, e io fuggii, pensando così di poterli allontanare da lui. Ma volevano catturare me, quelli… perché io ero vendibile. Mi svegliai incatenato su una galea diretta a Sowl. L’arcimago mi liberò prima che la notte seguente fosse trascorsa. I ferri che bloccavano tutti i prigionieri si sbriciolarono come foglie morte. Poi ordinò a Egre di non parlare più finché non avesse avuto qualcosa di valido da dire… Aveva raggiunto la galea avvicinandosi come una grande luce sull’acqua… Non avevo mai saputo cosa fosse veramente fino a quel momento.
Tosla meditò alcuni istanti su quanto aveva appreso. — Ha liberato dalle catene tutti gli schiavi? Perché gli altri non hanno ucciso Egre?
— Può darsi che abbiano proseguito il viaggio, portando Egre a Sowl e vendendolo — rispose Lebannen.
L’altro rifletté ancora un poco. — Dunque è per questo che eri così desideroso di eliminare la tratta degli schiavi.
— Un motivo, sì.
— Non favorisce la popolarità, di solito — commentò Tosla. Studiò la carta del mare Interno fissata alla tabella alla sinistra del timoniere. — L’isola di Way — disse. — Da dove proviene la donna drago.
— Stai alla larga da lei, ho notato.
Il timoniere arricciò le labbra, ma non fischiò, trovandosi a bordo di una nave. — Sai quella canzone a cui ho accennato, a proposito della fanciulla di Belilo? Be’, l’ho sempre considerata una storia e basta. Finché non ho visto lei.
— Dubito che ti divorerebbe, Tosla.
— Sarebbe proprio una bella morte — disse il marinaio, piuttosto acido.
Il re rise.
— Non sfidare la sorte — fece quello.
— Non temere.
— Tu e lei stavate parlando là a prua così beati e tranquilli. È come mettersi a proprio agio con un vulcano, a mio avviso… Però, ti confesso che non mi dispiacerebbe vedere qualcosa di più del regalo che i Karg ti hanno mandato. C’è uno spettacolo che merita di essere visto, in quell’involto, a giudicare dai piedi. Ma come si fa a farlo uscire dalla tenda? I piedi sono bellissimi, ma mi piacerebbe dare un’occhiata anche alle caviglie, tanto per cominciare.
Lebannen si rese conto che il proprio volto stava assumendo un’espressione torva, e si girò per evitare che l’altro vedesse.
— Se qualcuno mi desse un involto come quello, io lo aprirei — disse Tosla, fissando il mare.
Il re non riuscì a frenare un lieve gesto di impazienza. Il timoniere, un tipo sveglio, se ne accorse. Abbozzò un sorriso ironico, e non aggiunse altro.
Il capitano della nave era uscito sul ponte, e Lebannen iniziò a parlare con lui. — Pare che là avanti ci aspetti il maltempo, eh? — disse. E il capitano annuì, confermando: — Nubi di tempesta a sud e a Ovest. L’incontreremo questa sera.
Nel pomeriggio, il mare si increspò sempre più, la luce benigna del sole assunse una sfumatura cupa color ottone, e raffiche di vento soffiavano cambiando di continuo direzione. Tenar aveva detto al re che la principessa temeva il mare, e il sovrano un paio di volte lanciò un’occhiata alla cabina di poppa, aspettandosi di non vedere alcuna figura velata di rosso tra le anatre in fila. Ma erano state Tenar e Tehanu a ritirarsi all’interno; la principessa era ancora là, e Irian sedeva accanto a lei. Stavano parlando fitto. Cosa mai potevano dirsi una donna drago di Way e una donna d’harem di Hur-at-Hur? Che lingua avevano in comune? Era così curioso di scoprirlo che si portò a poppa.
Quando il sovrano arrivò vicino alla cabina, Irian alzò lo sguardo e gli sorrise. Aveva un volto forte, aperto, un largo sorriso; andava scalza per libera scelta, era trascurata nel vestire, lasciava che il vento le arruffasse i capelli; complessivamente, sembrava soltanto una contadina bella, focosa, intelligente, incolta, finché non ci si accorgeva dei suoi occhi. Erano color ambra, con una sfumatura grigia, e quando lo fissava, come stava facendo adesso, lui non riusciva a sostenerne lo sguardo. Il re abbassò gli occhi.
Aveva detto esplicitamente che a bordo della nave erano banditi i convenevoli e le cerimonie, gli inchini e le riverenze, che nessuno doveva balzare in piedi all’avvicinarsi del re; la principessa, però, si era alzata. Come aveva osservato Tosla, aveva piedi molto belli, non piccoli, ma arcuati, forti e ben fatti. Lebannen li guardò, ammirò i piedi snelli sulla superficie di legno bianco del ponte. Sollevò poi lo sguardo e vide che la principessa stava facendo quello che aveva fatto l’ultima volta che l’aveva incontrata: si scostava i veli perché lui, ma nessun altro, potesse vederla in viso. Fu un po’ sconcertato dalla bellezza austera, quasi tragica, del viso in quell’alone d’ombra rossa.