— Va… va tutto bene, principessa? — chiese, balbettando, cosa che gli capitava assai di rado.
Lei rispose: — La mia amica Tenar ha detto, respira vento.
— Sì — fece Lebannen, senza sapere di preciso cosa stesse dicendo.
— Non pensi che i tuoi maghi forse potrebbero fare qualcosa per lei? — intervenne Irian, distendendo le gambe e alzandosi a sua volta. Erano di notevole statura.
Lui voleva vedere il colore dei suoi occhi, dato che poteva guardarli. Erano azzurri, gli sembrò, ma come gli opali contenevano altri colori, o forse era la luce del sole attraverso i veli rossi… — Fare qualcosa per lei?
— Vorrebbe tanto evitare di avere il mal di mare. Ha sofferto terribilmente durante il viaggio dalle terre dei Karg.
— Io non avrò paura — dichiarò la principessa. E fissò il sovrano quasi volesse sfidarlo a… cosa?
— Certo — disse Lebannen. — Certo. Chiederò a Onice. Sono certo che possa fare qualcosa. — Rivolgendosi a entrambe, abbozzò un inchino, e si affrettò ad allontanarsi, andando in cerca del mago.
Onice e Seppel conferirono, poi consultarono Alder. Un incantesimo contro il mal di mare rientrava più nella sfera di competenza degli stregoni, dei riparatori, dei guaritori, che non nella sfera di competenza di maghi eruditi e potenti. Naturalmente, al momento lui non poteva fare nulla, ma ricordava forse qualche incantesimo?… L’ex riparatore non conosceva nessun sortilegio del genere, non avendo mai immaginato di poter viaggiare in mare finché non erano iniziati i suoi guai. Seppel confessò che lui stesso soffriva il mal di mare sulle piccole imbarcazioni o con il maltempo. Alla fine, Onice andò alla cabina di poppa e si giustificò con la principessa: non era in grado di aiutarla con la propria arte, e poteva offrirle solo un amuleto che un marinaio, venuto a conoscenza del problema, gli aveva voluto dare a tutti i costi perché lo consegnasse a lei.
Le lunghe dita di Seserakh emersero dai veli rossi e dorati. Il mago le posò sulla mano uno strano oggettino bianco e nero: alghe secche intrecciate attorno a uno sterno d’uccello. — Un osso di procellaria, perché le procellarie volano nella tempesta — spiegò il mago, l’espressione di profondo imbarazzo.
La principessa piegò il capo nascosto dai veli e mormorò un ringraziamento in kargico. L’amuleto scomparve sotto i veli. Poi Seserakh si ritirò nella cabina. Onice, incontrando il re a breve distanza, si giustificò anche con lui. Adesso, la nave beccheggiava violentemente sul mare mosso sferzato da forti raffiche di vento, e il mago disse: — Ecco, sire, potrei dire una parola ai venti…
Lebannen sapeva bene che esistevano due scuole di pensiero riguardo la manipolazione delle condizioni del tempo: quella antica, dei naviganti primitivi che ordinavano ai venti di essere al servizio delle loro navi come i pastori con i cani; e la nuova della scuola di Roke, che risaliva al massimo ad alcuni secoli prima, secondo la quale il vento magico si poteva suscitare solo in caso di vero bisogno, perché era meglio che i venti del mondo soffiassero liberamente. Il re sapeva che Onice era un fervido fautore del metodo di Roke. — Usa il tuo giudizio, Onice — disse. — Se ritieni che ci aspetti una nottata davvero brutta… Ma se si tratta soltanto di qualche raffica…
Il mago alzò lo sguardo verso la testa dell’albero, dove un paio di lingue di fuoco rossastro erano già balenate nel crepuscolo nuvoloso. Nell’oscurità davanti a loro, in tutta la distesa meridionale del mare, i tuoni brontolavano fragorosi. Dietro, l’ultima luce del giorno lambiva pallida e tremula le onde. — Benissimo — disse il mago, in tono piuttosto lugubre, e scese nella piccola cabina affollata.
Lebannen rimase quasi sempre all’esterno, dormendo in coperta, quando riuscì a chiudere occhio. Non era una notte adatta al sonno, per chi si trovava a bordo della Delfino. Non si trattava di un fortunale isolato, ma di una serie di violenti temporali estivi che imperversavano da sud-Ovest. Tra le onde rischiarate da lampi abbaglianti, lo schianto dei tuoni che sembravano sul punto di spaccare la nave, e le raffiche poderose che continuavano a sballottare lo scafo, fu una notte lunga e rumorosa.
Onice consultò il re una volta: doveva dire una parola al vento? Il sovrano guardò il capitano, che si strinse nelle spalle. Il capitano e l’equipaggio avevano un gran daffare, ma non erano preoccupati. La nave non era in pericolo. Quanto alle donne, al sovrano fu riferito che erano sedute in cabina, e stavano giocando d’azzardo. Irian e la principessa erano uscite sul ponte in precedenza, ma avevano constatato che era facile perdere l’equilibrio e si erano accorte di essere d’intralcio all’equipaggio, così erano rientrate. A raccontare che stavano giocando d’azzardo era stato l’aiutante del cuoco, che era stato mandato da loro per chiedere se desiderassero qualcosa da mangiare. Per le donne andava bene qualsiasi cosa.
Lebannen si ritrovò in preda alla stessa intensa curiosità provata nel pomeriggio. Senza dubbio, le lampade della cabina di poppa erano tutte accese, perché il loro chiarore si rifletteva dorato sulla schiuma turbolenta della scia. Verso mezzanotte, il sovrano andò a bussare.
Irian aprì la porta. Dopo il bagliore dei lampi e l’oscurità della tempesta, la luce delle lampade nella cabina sembrava calda e costante, sebbene dondolando proiettasse tutt’intorno ombre oscillanti. Notò in modo confuso vari colori… i colori tenui degli indumenti delle donne, la loro pelle, bruna, pallida o dorata, i loro capelli, neri, grigi o fulvi, i loro occhi… gli occhi della principessa che lo fissavano, allarmati, mentre le mani afferravano un velo per coprirsi il viso.
— Oh! Pensavamo che fosse l’aiutante del cuoco! — disse Irian, con una risata.
Tehanu lo guardò e, l’atteggiamento timido e cameratesco, chiese: — C’è qualche problema?
L’uomo si rese conto che era immobile sulla soglia e le stava fissando come un muto messaggero di sventura.
— No… Nessun problema… Va tutto bene? Mi dispiace che il tempo sia infame…
— Non ti riteniamo responsabile del tempo — disse Tenar. — Non riuscivamo a dormire, così la principessa e io abbiamo insegnato alle altre un gioco kargico.
Vide sparsi sul tavolo dei dadi d’avorio a cinque facce, probabilmente di Tosla.
— Abbiamo scommesso delle isole — spiegò Irian. — Ma Tehanu e io stiamo perdendo. I Karg hanno già vinto Ark e Ilien.
La principessa aveva abbassato il velo; sedeva di fronte al re risoluta, estremamente tesa, come un giovane spadaccino che si accinge a misurarsi con un sovrano. Nel tepore della cabina, le donne erano tutte scalze e a braccia nude, ma la mancanza di imbarazzo con cui la principessa mostrava il volto attirò la sua attenzione come una calamita attira uno spillo.
— Mi dispiace che il tempo sia infame — ripeté come uno stolto, e chiuse la porta. Mentre si allontanava, udì che tutte le donne nella cabina ridevano.
Andò accanto al timoniere. Contemplando l’oscurità burrascosa illuminata ora da lampi lontani sporadici, rivide tutto quello che aveva visto nella cabina di poppa… la nera cascata dei capelli di Tehanu, il sorriso affettuoso e canzonatorio di Tenar, i dadi sul tavolo, le braccia tornite della principessa, dello stesso color miele della luce della lampade, la sua gola ombreggiata dai capelli… anche se non ricordava di averle guardato le braccia e la gola, ma solo il volto, gli occhi colmi di sfida, di disperazione. Cosa temeva? Credeva che lui volesse farle del male?
Un paio di stelle adesso brillavano alte nel cielo a sud. Lebannen si ritirò nella propria cabina affollata, sospese un’amaca, perché le cuccette erano tutte occupate, e dormì alcune ore. Si svegliò prima dell’alba, sempre irrequieto, e salì in coperta.