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Il giorno spuntò radioso e tranquillo come se non ci fosse mai stata nessuna tempesta. Stando accanto al parapetto di prua, Lebannen vide i primi raggi del sole che lambivano l’acqua, e gli venne in mente una vecchia canzone:

Oh, mio gaudio! Pria che bell’Ea esistesse, pria che Segoy Creasse l’isole nella realtà, Sul mar soffiava il vento del mattino Oh, mio gaudio, va’ in libertà!

Era un frammento di una ballata o di una ninnananna della sua infanzia. Non ricordava altro. La melodia era dolce. La cantò sottovoce e lasciò che il vento gli prendesse le parole dalle labbra e le portasse via.

Tenar uscì dalla cabina e, vedendolo, gli si avvicinò. — Buongiorno, mio caro signore — esordì, e lui la salutò cordiale, ricordando in modo vago di essere stato in collera con lei, ma senza sapere per quale motivo e stentando a credere che fosse potuta accadere una cosa del genere.

— Voi Karg avete vinto Havnor la notte scorsa? — domandò.

— No, puoi tenerla. Siamo andate a letto. Le ragazze sono ancora coricate, a poltrire. Ebbene, avvisteremo Roke, oggi?

— Roke? No, non fino all’alba di domani. Ma prima di mezzogiorno dovremmo essere nel porto di Thwil. Se ci permetteranno di raggiungere l’isola.

— Cosa intendi dire?

— Roke si difende dai visitatori sgraditi.

— Oh, sì… Ged me ne ha parlato. Era su una nave e stava cercando di arrivare là, e loro mandarono il vento contro di lui, il vento di Roke, lo ha chiamato.

— Contro di lui?

— È stato tanto tempo fa. — Tenar sorrise divertita vedendo che il re era incredulo, che non riusciva a concepire che suo marito potesse ricevere un affronto. — Quando Ged era un ragazzo che aveva messo mano nelle forze oscure. Questo è quanto mi ha raccontato.

— Anche da adulto ha messo mano nelle forze oscure.

— Non lo fa più, adesso — dichiarò lei, serena.

— No, siamo noi a doverlo fare. — Il volto di Lebannen era diventato cupo. — Vorrei sapere in cosa stiamo mettendo mano. Sono sicuro che, come ha predetto Ogion, come ha detto Ged ad Alder, siamo di fronte a un grande rischio o a un grande cambiamento. E sono sicuro che Roke sia il luogo giusto in cui dobbiamo trovarci per affrontarlo. Ma a parte questo, nessuna certezza… nulla. Non so cosa ci aspetti. Quando Ged mi portò nella terra tenebrosa, conoscevamo il nostro nemico. Quando io condussi la flotta a Sorra, sapevo qual era il male che volevo eliminare. Ma adesso… I draghi sono nostri nemici o nostri alleati? Cos’è andato storto? Cosa dobbiamo fare o annullare? I maestri di Roke saranno in grado di dircelo? O manderanno il loro vento contro di noi?

— Temendo… cosa?

— Temendo il drago. Quello che conoscono. O quello che non conoscono…

Anche il volto di Tenar era serio, ma a poco a poco fu illuminato da un sorriso. — Certo che stai portando ai maestri di Roke proprio una bella accozzaglia di gente! — commentò lei. — Uno stregone con gli incubi, un mago di Paln, due draghi, e due Karg. Gli unici passeggeri rispettabili di questa nave siete tu e Onice.

Lebannen non riuscì a ridere. — Se solo lui fosse con noi — disse.

La donna gli posò la mano sul braccio. Fece per parlare, poi invece tacque.

Lui mise la mano sulla sua. Rimasero alcuni istanti in silenzio, fianco a fianco, contemplando la danza del mare.

— La principessa ha qualcosa che desidera raccontarti, prima che arriviamo a Roke — lo informò Tenar. — È una storia che proviene da Hur-at-Hur. Là nel deserto, hanno conservato certi ricordi. Penso che questa storia risalga a un’epoca remota, che sia più vecchia di qualsiasi storia io abbia mai sentito, a parte quella della donna di Kemay. Ha a che fare con i draghi… Sarebbe cortese da parte tua invitare la principessa a raggiungerti, così non sarà lei a doverlo chiedere.

Consapevole della circospezione con cui la donna parlava, il re provò un istante di insofferenza, un senso fugace di vergogna. Osservò la distesa del mare a sud, osservò la rotta di una galea diretta a Kamery o a Way, il lieve luccichio dei lunghi remi che si alzavano dall’acqua. Rispose: — Certo. Verso mezzogiorno?

— Grazie.

Verso mezzogiorno, il sovrano mandò un giovane marinaio alla cabina di poppa, a chiedere alla principessa di raggiungerlo sul ponte di prua. Lei uscì subito e, dato che la nave era lunga solo una cinquantina di piedi, il re poté seguire con lo sguardo tutta la sua avanzata: non era certo un lungo cammino, ma forse lo era per lei. Perché ad avvicinarsi a lui non fu un cilindro rosso informe, bensì una giovane slanciata. La principessa indossava morbidi calzoni bianchi, una lunga camicia rosso opaco, un cerchietto d’oro da cui scendeva un sottilissimo velo che le copriva il volto e il capo. Il velo ondeggiava scosso dal vento marino. Guidata dal giovane marinaio, la ragazza aggirò i vari ostacoli e percorse i saliscendi del ponte ingombro e affollato. Camminava lenta e solenne. Era scalza. Tutti gli occhi della nave erano fissi su di lei.

Giunta sul ponte di prua, si fermò.

Il re s’inchinò. — La tua presenza ci onora, principessa.

Tenendo la schiena ben eretta, lei fece una profonda riverenza e disse: — Grazie.

— Non sei stata male la notte scorsa, mi auguro?…

Lei posò una mano sull’amuleto appeso al collo, un piccolo osso legato a un cordoncino nero, e lo mostrò al sovrano. — Kerez akath akatharwa erevi - disse. Lebannen sapeva che la parola akath in kargico significava stregone o stregoneria.

C’erano occhi ovunque, occhi nei boccaporti, sguardi tra il sartiame, ammiccamenti che parevano indovini, penetranti come succhielli.

— Andiamo più avanti, se non ti dispiace. Forse, presto vedremo l’isola di Roke — disse il re, anche se non c’era la minima probabilità di scorgerla fino all’alba. Con una mano sotto il gomito della giovane, ma senza toccarla, la condusse lungo il tratto di ripida salita del ponte fino all’estremità prodiera, dove tra un argano, il bompresso e il parapetto di babordo, c’era un piccolo triangolo di tolda — abbandonato frettolosamente da un marinaio che stava riparando una gomena — tutto per loro. Erano ancora visibili da tutti, però potevano volgere le spalle al resto della nave: la massima intimità di cui i reali potevano disporre a bordo.

Quando ebbero raggiunto quel cantuccio appartato, la principessa si girò verso il re e scostò il velo dal viso. Il sovrano intendeva chiederle cosa potesse fare per lei, ma la domanda gli sembrò fuori luogo, irrilevante. Così non disse nulla.

Lei disse: — Signore re. A Hur-at-Hur io sono feyagat. A Roke io devo essere figlia di re dei Karg. Per essere questo, io non sono feyagat. Sono a faccia nuda. Se a te va bene.

Dopo un attimo, lui rispose: — Sì. Sì, principessa. È… un’ottima idea.

— A te va bene?

— Benissimo. Sì. Grazie, principessa.

— Barrezù - fece lei, una formula regale per comunicargli che accettava il ringraziamento. La dignità della giovane era sconcertante. Quando, poco prima, aveva scostato il velo, il suo volto si era infuocato; adesso non c’era più alcuna traccia di imbarazzo. Dritta e immobile, la giovane fece appello alle proprie forze per iniziare un altro discorso.

— Anche… — disse. — Inoltre… La mia amica Tenar…

— La nostra amica Tenar — disse lui, con un sorriso.

— La nostra amica Tenar… Lei dice che devo raccontare a re Lebannen del Vedurnan.

Lui ripeté la parola.

— Molto molto tempo fa… popolo dei Karg, popolo di stregoneria, popolo dei draghi, eh? Sì?… Tutti un popolo, tutti parlano un… un… Oh! Wuluah mekrevt!