— Una lingua?
— Ah! Sì! Una lingua. — Nel tentativo veemente di parlare hardico, di dirgli quello che desiderava raccontargli, la principessa stava perdendo la propria timidezza; il volto e gli occhi le brillavano. — Ma poi popolo dei draghi dice: "Lasciate, lasciate tutte le cose. Volate!"… Ma noi, noi diciamo: "No, tenete. Tenete tutte le cose. State qui!"… Così ci separiamo, eh? Il popolo dei draghi e noi. Così loro fanno il Vedurnan. Questo da lasciare… questo da tenere. Sì? Ma per tenere tutte le cose, noi dobbiamo lasciare quella lingua. Quella lingua del popolo dei draghi…
— La Vecchia lingua?
— Sì! Così, noi lasciamo quella Vecchia lingua, e teniamo tutte le cose. E popolo dei draghi lascia tutte le cose, ma tiene quella, tiene quella lingua. Eh? Seyneha? Questo è il Vedurnan. — Muovendo le belle e grandi mani con gesti eloquenti, la principessa guardò il viso dell’uomo, ansiosa, sperando che lui capisse. — Noi andiamo a est, est, est. Il popolo dei draghi va a Ovest; Ovest… Noi stiamo, ci fermiamo, loro volano. Alcuni draghi vengono a est con noi, ma non tengono la lingua, dimenticano, e dimenticano il volare. Come il popolo dei Karg. Il popolo dei Karg parla la lingua dei Karg, non la lingua dei draghi. Tutti tengono il Vedurnan, est, Ovest. Seyneha? Ma in…
Smarrita, congiunse le mani, avvicinandole da "est" e da "Ovest", e Lebannen disse: — In mezzo?
— Ah! Sì! In mezzo! — Lei rise, contenta di avere trovato la parola giusta. — In mezzo… voi! Popolo di stregoneria! Eh? Voi, popolo di mezzo, parlate la lingua hardica ma anche, inoltre, continuate a parlare la Vecchia lingua. Voi la imparate. Come io imparo hardico, eh? Imparate a parlare. Poi, poi… questo è il male. La cosa cattiva. Poi voi dite, in quella lingua di stregoneria, in quella Vecchia lingua, voi dite: "Noi non moriremo". Ed è così. E il Vedurnan è rotto.
I suoi occhi erano come fiamme azzurre. Trascorso un attimo, la principessa chiese: — Seyneha?
— Non sono sicuro di capire…
— Voi tenete la vita. Voi tenete. Troppo tempo. Voi non lasciate mai. Ma per morire… — La giovane fece un ampio gesto, tendendo le braccia e aprendo le mani, come se gettasse via qualcosa, la gettasse nell’aria, sul mare.
Lui scosse il capo, rincresciuto.
— Ah… — disse la principessa. Rifletté a lungo, ma non trovò le parole che cercava. Sconfitta, mosse le mani a palmo in giù in una mimica aggraziata che esprimeva rinuncia. — Devo imparare più parole — dichiarò.
— Principessa, il maestro strutturatore di Roke, il maestro del Bosco immanente… — Lebannen la osservò per vedere se comprendesse, poi ricominciò. — A Roke, c’è un uomo, un grande mago, che è un Karg. Puoi raccontare a lui quello che hai detto a me… nella tua lingua.
Lei ascoltò attenta e annuì. Disse: — L’amico di Irian. Parlerò a quell’uomo con tutto il mio cuore. — Il volto le si illuminò all’idea.
Il re era commosso. Disse: — Mi dispiace che tu abbia sofferto di solitudine qui, principessa.
Lei lo guardò, vigile e fulgida, ma non replicò.
— Spero che, con il passare del tempo, imparando la nostra lingua…
— Io imparo veloce — disse lei. Lui non capì se fosse un’affermazione o una previsione.
Si stavano fissando.
Lei riassunse il proprio atteggiamento maestoso e solenne e parlò cerimoniosa, come aveva fatto all’inizio. — Ti ringrazio dell’ascolto, signore re. — Piegò il capo e si coprì gli occhi in segno formale di rispetto, e ripeté la profonda riverenza, pronunciando alcune parole in kargico.
— Per favore — le chiese lui — dimmi cosa hai detto.
La principessa esitò, rifletté, e rispose: — I tuoi… i tuoi, ehm… piccoli re?… Figli! Figli, sì… i tuoi figli… lascia che siano draghi e re dei draghi. Eh? — Sorrise radiosa, lasciò che il velo le ricadesse sul viso, fece quattro passi indietro, si girò e si allontanò, percorrendo agile e con passo sicuro il ponte della nave. Lebannen rimase immobile come se i lampi della notte scorsa lo avessero infine colpito.
5
Ricongiungimento
L’ultima notte del viaggio in mare fu calma, calda, senza stelle. La Delfino si muoveva con un lieve dondolio sulle onde basse e regolari, veleggiando in direzione sud. Era facile dormire, e i passeggeri dormirono, e dormendo sognarono.
Alder sognò un piccolo animale che nell’oscurità veniva a toccargli la mano. Non riuscì a vedere cosa fosse, e quando provò a prenderlo, l’animaletto non c’era più, era scomparso. Sentì ancora il piccolo muso vellutato che gli toccava la mano. Si destò, e il sogno si dissolse, ma il dolore acuto della perdita gli rimase nel cuore.
Nella cuccetta sotto di lui, Seppel sognò di essere nella propria casa di Ferao, a Paln, intento a leggere un vecchio libro del sapere dell’epoca oscura, soddisfatto del proprio lavoro; ma fu interrotto. Qualcuno voleva vederlo. "Sarà solo questione di un minuto" pensò, e andò a parlare con il visitatore. Era una donna; i suoi capelli erano scuri con riflessi rossi, il volto era bellissimo e colmo di angoscia. — Devi mandarlo da me — gli disse. — Lo manderai da me, vero? — Seppel pensò: "Non so a chi si riferisca, ma devo fingere di saperlo" e rispose: — Non sarà facile. — Al che, la donna alzò una mano, e lui vide che in quella mano stringeva una pietra, una grossa pietra. Spaventato, pensò che intendesse scagliargliela addosso o percuoterlo, e indietreggiando si destò nell’oscurità della cabina. Rimase coricato, ascoltando il respiro dei compagni addormentati e il mormorio del mare lungo il fianco della nave.
Nella propria cuccetta sul lato opposto dell’angusta cabina, steso sul dorso, Onice fissava il buio; credeva di avere gli occhi aperti, credeva di essere sveglio, ma gli sembrava che tante cordicelle sottili fossero state legate attorno alle sue braccia, alle gambe, alle mani e alla testa, e che tutte quelle funi si estendessero nell’oscurità, sulla terra e sul mare, sulla curva del mondo: le corde lo tiravano, lo trainavano, e lui e la nave e tutti i passeggeri a bordo venivano così trascinati a poco a poco verso il luogo dove il mare si prosciugava, dove la nave si sarebbe arenata silenziosamente su sabbie invisibili. Ma Onice non poteva parlare né fare alcunché, poiché le corde gli bloccavano le mascelle, le palpebre.
Lebannen era sceso in cabina a dormire un po’, per essere fresco e riposato all’alba, quando forse avrebbero avvistato Roke. Si addormentò in fretta e profondamente, e i suoi sogni furono brevi e mutevoli: un’alta collina verde sul mare… una donna che sorrideva e, alzando la mano, gli mostrava di poter far sorgere il sole… un ricorrente alla corte di giustizia di Havnor da cui apprendeva, con orrore e vergogna, che metà degli abitanti del regno stavano morendo di fame in stanze chiuse a chiave sotto le case… un bambino che gli gridava: "Vieni da me!" ma invano, perché lui non riusciva a trovarlo… Mentre dormiva, stringeva con la destra il sasso nella piccola borsa che portava appesa al collo, lo stringeva forte.
Nella cabina sovrastante, anche le donne sognarono. Seserakh stava spingendosi verso le montagne, le belle e care montagne desertiche della sua patria. Ma stava percorrendo la via proibita, il sentiero dei draghi. Nessun piede umano doveva camminare su quel sentiero, non doveva nemmeno attraversarlo. La polvere del sentiero era liscia e calda sotto i suoi piedi nudi, e anche se sapeva di non dover seguire quel cammino, lei continuò ad avanzare, finché non alzò lo sguardo e vide che le montagne non erano quelle che conosceva, bensì picchi scoscesi neri e frastagliati che non avrebbe mai potuto scalare. Eppure aveva il dovere di farlo.
Irian volava gioiosa sul vento di tempesta, ma la tempesta le imprigionò le ali con lacci di lampo, facendola scendere sempre più giù, verso le nubi. Ma mentre veniva trascinata in basso vide che quelle non erano nubi ma rocce nere, una catena montuosa scura e frastagliata. Aveva le ali legate ai fianchi dalle corde di fulmini, e cadde.