Tehanu strisciava in una galleria nelle viscere della terra. Non c’era aria sufficiente per respirare, e la galleria diventava sempre più stretta. Non si poteva tornare indietro. Ma le radici luccicanti degli alberi che penetravano nel terreno fino al cunicolo le offrivano qualche appiglio, consentendole di trascinarsi avanti nell’oscurità.
Tenar saliva i gradini del Trono degli innominabili nel sacro Luogo di Atuan. Era molto piccola, e i gradini erano molto alti e quindi saliva a fatica. Quando arrivò al quarto gradino non si fermò e non si voltò, come le aveva raccomandato di fare la sacerdotessa. Proseguì. Salì il gradino successivo, e poi un altro, e un altro ancora, e la polvere era così spessa che gli scalini erano stati cancellati e lei doveva cercare a tentoni le superfici su cui non si era mai posato nessun piede. Aveva fretta, perché dietro il trono vuoto Ged aveva lasciato qualcosa o perso qualcosa, qualcosa di grande importanza per moltissime persone, e lei doveva trovarlo. Solo, non sapeva cosa fosse. — Una pietra, una pietra — si disse. Ma dietro il trono, quando finalmente giunse lassù, c’era soltanto polvere, escrementi di gufo e polvere.
A Gont, nell’alcova della casa del vecchio mago sull’Overfell, Ged sognò di essere arcimago. Stava parlando con l’amico Thorion, mentre percorrevano il corridoio delle rune verso la sala dove si riunivano i maestri della scuola. — Non ho avuto alcun potere, per anni e anni — disse serio a Thorion. L’evocatore sorrise e replicò: — Sai, era solo un sogno. — Ma Ged era preoccupato dalle lunghe ali nere che strisciavano sul pavimento del corridoio dietro di lui; alzò le spalle, cercando di sollevare le ali, ma quelle continuarono a strisciare come sacchi vuoti. — Hai le ali, tu? — chiese a Thorion, che rispose: — Oh, sì — compiaciuto, mostrandogli come le sue fossero legate strettamente alla schiena e alle gambe da tante cordicelle. — Sono bene aggiogato — disse.
Sull’isola di Roke, tra gli alberi del Bosco immanente, Azver lo strutturatore dormiva, come faceva spesso d’estate, in una radura vicino al margine orientale del bosco, dove poteva alzare lo sguardo e vedere le stelle attraverso il fogliame. Là, il suo sonno era leggero, trasparente, la sua mente si spostava dal pensiero al sogno e viceversa, guidata dal movimento delle stelle e delle foglie che cambiavano posto nella loro danza. Quella notte, però, non c’erano stelle, e le foglie erano immobili. Azver scrutò il firmamento privo di luce, e spinse lo sguardo oltre le nubi. Nell’alto del cielo nero c’erano degli astri: piccoli, brillanti, e fermi. Non si muovevano. Lo strutturatore capì che non ci sarebbe stato levar del sole… Si drizzò a sedere, allora, sveglio, scrutando la luce tenue, delicata, che splendeva sempre nei passaggi tra le file di alberi. Il suo cuore batteva lento e forte.
Nella Grande casa i giovani, dormendo, si agitarono e gridarono, sognando che dovevano andare ad affrontare un esercito su una piana di polvere, ma i guerrieri contro cui dovevano combattere erano vecchi, vecchie, gente debole e malata, bambini in lacrime.
I maestri di Roke sognarono una nave che stava veleggiando diretta alla loro isola, ed era molto carica. Uno sognò che la nave trasportava rocce nere. Un altro sognò che trasportava fuoco ardente. Un altro sognò che era carica di sogni.
I sette maestri che dormivano nella Grande casa si destarono, uno dopo l’altro, nelle loro celle di pietra, accesero una luce fatua, e si alzarono. Trovarono il portinaio già in piedi, che li attendeva alla porta. — Il re verrà, all’alba — annunciò, sorridendo.
— Il poggio di Roke — disse Tosla, osservando la sagoma immobile che si stagliava in lontananza a sud-Ovest, indistinta, sovrastando le onde nel fioco chiarore antelucano. Lebannen, accanto a lui, non disse nulla. La coltre di nubi si era dissolta, e la volta del cielo, pura e incolore, copriva come una cupola il grande cerchio delle acque.
Il capitano della nave si unì a loro. — Un’alba propizia — disse, mormorando nel silenzio.
L’Est s’illuminò, tingendosi lentamente di giallo. Il re lanciò un’occhiata a poppa. Due donne erano già in piedi, stavano accanto al parapetto all’esterno della loro cabina; donne alte, scalze, silenziose, che guardavano a est.
La sommità della tondeggiante collina verde fu lambita per prima dalla luce del sole. Era pieno giorno quando passarono tra i promontori della baia di Thwil. Tutti quelli che si trovavano a bordo erano in coperta, e osservavano. Parlavano poco, e con voce sommessa.
Il vento cessò, una volta nel porto. L’aria era così immota che l’acqua rifletteva il centro abitato che sorgeva sulla baia e i muri della Grande casa che dominava la città. La nave continuò ad avanzare, sempre più lenta.
Il re lanciò uno sguardo al capitano e a Onice. Il primo annuì. Il mago portò le mani in alto e verso l’esterno, lentamente, compiendo un gesto magico, e sussurrò una parola.
La nave continuò a scivolare leggera sull’acqua, e non rallentò finché non si affiancò al molo più lungo. Allora il capitano parlò, e la grande vela fu ammainata, mentre degli uomini a bordo gettavano le cime agli uomini sul molo, gridando, e il silenzio fu rotto.
Sulla banchina c’erano delle persone venute ad accoglierli, abitanti della cittadina che stavano radunandosi, e un gruppo di giovani della scuola, tra i quali spiccava un uomo grande e grosso dalla carnagione scura che stringeva in mano un bastone massiccio e alto quanto lui. — Benvenuto a Roke, re delle terre occidentali — disse, avanzando, mentre la passerella veniva abbassata e fissata. — E un benvenuto a tutta la tua compagnia.
I giovani che erano con lui e tutti i cittadini acclamarono a gran voce il sovrano, e Lebannen rispose alle grida festose allegramente, scendendo la passerella. Salutò il maestro evocatore, e parlarono un poco.
Gli astanti ebbero modo di notare che, malgrado le parole di benvenuto, il maestro evocatore guardò più volte con espressione corrucciata le donne ferme accanto al parapetto della nave, e che il re non parve soddisfatto delle sue opinioni.
Quando Lebannen si staccò da lui e tornò a bordo, Irian gli si fece incontro. — Signore re — dichiarò — puoi dire ai maestri che io non voglio entrare nella loro casa… questa volta. Non entrerei neppure se me lo chiedessero.
Il volto del sovrano era estremamente arcigno. — È il maestro strutturatore che ti chiede di andare da lui, nel Bosco immanente — la informò.
Al che, Irian rise, raggiante. — Sapevo che lo avrebbe fatto — disse. — E Tehanu verrà con me.
— E anche mia madre — mormorò Tehanu.
Il re guardò Tenar, che annuì.
— E sia — fece il sovrano. — Il resto di noi alloggerà nella Grande casa, a meno che qualcuno non preferisca un altro posto.
— Col tuo permesso, mio signore — intervenne Seppel. — Anch’io chiederò ospitalità al maestro strutturatore.
— Seppel, non è necessario — sbottò brusco Onice. — Vieni con me a casa mia.
Il mago pelnico fece un piccolo gesto conciliante. — Nessuna riprovazione nei confronti dei tuoi amici, amico mio — spiegò. — Ma è da una vita che desidero camminare nel Bosco immanente. E là mi sentirei più tranquillo.
— Può darsi che le porte della Grande casa per me siano chiuse, come è già accaduto in precedenza — disse Alder, esitante; ora la faccia olivastra di Onice era rossa di vergogna.
La testa velata della principessa si era voltata ora verso l’uno ora verso l’altro, ascoltando trepidante, cercando di capire cosa dicessero. Adesso anche lei parlò. — Per favore, mio signore re, posso stare con la mia amica Tenar? Con la mia amica Tehanu? E con Irian? E parlare con quel Karg?