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Lebannen guardò tutti, si girò verso il maestro evocatore che attendeva imponente ai piedi della passerella, e rise. Poi parlò dal parapetto, con voce chiara e affabile. — I miei amici sono stati chiusi a lungo nelle cabine anguste della nave, evocatore, e a quanto pare sono smaniosi di avere dell’erba sotto i piedi e delle foglie sopra la testa. Se chiederemo tutti allo strutturatore di accoglierci, e lui acconsentirà, perdonerai questa nostra apparente mancanza di riguardo per l’ospitalità della Grande casa almeno per qualche tempo?

Dopo alcuni istanti, l’evocatore s’inchinò rigido.

Un uomo basso e tarchiato gli si era accostato sul molo, e adesso stava guardando il re, sorridendo. Alzò il proprio bastone di legno argenteo.

— Sire — disse — una volta, tanto tempo fa, ti ho accompagnato a visitare la Grande casa, e ti ho raccontato bugie su ogni cosa.

— Azzardo! — esclamò Lebannen. Si incontrarono a metà strada sulla passerella e si abbracciarono, e parlando scesero sulla banchina.

Onice fu il primo a seguirli; salutò l’evocatore con fare solenne e cerimonioso, quindi si rivolse all’uomo chiamato Azzardo. — Sei Chiave del vento, adesso? — domandò, e quando quello rise e rispose di sì, lo abbracciò anch’egli, dicendo: — Un maestro degno e meritevole! — Prendendo l’uomo un po’ in disparte, conversò con lui, interessato e accigliato.

Il sovrano alzò lo sguardo verso la nave per far segno agli altri di sbarcare, e quando scesero a terra uno alla volta, li presentò ai due maestri di Roke, Brando l’evocatore e Azzardo la Chiave del vento.

Nella maggior parte delle isole dell’Arcipelago, le persone non si salutavano accostando il palmo della mano secondo l’usanza di Enlad, ma si limitavano a piegare il capo o a tenere entrambe le mani aperte davanti al cuore, quasi in un gesto di offerta. Quando Irian e l’evocatore si incontrarono, non si inchinarono né fecero alcun gesto. Rimasero rigidi con le mani lungo i fianchi.

La principessa fece la solita profonda riverenza, la schiena ben eretta.

Tenar fece il gesto tradizionale, e l’evocatore ricambiò il saluto.

— La donna di Gont, la figlia dell’arcimago, Tehanu — disse il re. La ragazza abbassò il capo e fece il gesto tradizionale. Il maestro evocatore la fissò, spalancò la bocca ansimando, e indietreggiò come se fosse stato percosso.

— Lady Tehanu — si affrettò a intervenire Azzardo, portandosi tra lei e l’evocatore — ti diamo il benvenuto a Roke… per tuo padre, e tua madre, e per quello che sei. Mi auguro che il tuo viaggio sia stato piacevole.

Lei lo guardò confusa, e piegò la testa, nascose il viso, più che inchinarsi; tuttavia riuscì a rispondere al saluto, sussurrando qualcosa.

Lebannen, la faccia una maschera bronzea di calma e compostezza, disse: — Sì, è stato un viaggio piacevole, Azzardo, sebbene il suo esito sia ancora incerto. Possiamo attraversare la città, adesso, Tenar… Tehanu… principessa… Orm Irian? — Guardò ognuna di loro mentre parlava, pronunciando l’ultimo nome con particolare chiarezza.

Si mise in cammino insieme alla più anziana, e il resto del gruppo li seguì. Mentre scendeva la passerella, Seserakh si scostò risoluta i veli rossi dal volto.

Azzardo s’incamminò a fianco di Onice, Alder a fianco di Seppel. Tosla restò a bordo della nave. L’ultimo a lasciare il molo fu Brando l’evocatore, che procedeva in solitudine e con passo pesante.

Più di una volta, Tenar aveva chiesto a Ged di parlarle del Bosco immanente; le piaceva sentire la sua descrizione. — Sembra un bosco qualsiasi, la prima volta che lo si vede. Non è molto grande. I campi arrivano fino ai margini del bosco a nord e a est, e ci sono colline a sud e a Ovest… Non sembra nulla di eccezionale. Però attira l’attenzione. E a volte, dall’alto del poggio di Roke, si può vedere che quel bosco è una foresta, che si estende a perdita d’occhio. Si cerca di scorgere dove termini, ma senza riuscirci. È una distesa ininterrotta che continua verso Ovest… E quando lo si percorre, sembra ancora un bosco comune, anche se gli alberi sono per lo più di un genere che cresce solo là. Alti, con il tronco marrone, ricordano in parte le querce, e in parte i castagni…

— Come si chiamano?

Ged aveva riso. — Arhada, nella Vecchia lingua. Alberi… Gli alberi del bosco, in hardico… Le loro foglie non ingialliscono tutte in autunno, ma un po’ in ogni stagione, così il fogliame è sempre verde con una sfumatura dorata. Perfino nelle giornate fosche, quegli alberi sembrano riflettere un poco di sole. E di notte, sotto di essi non c’è mai completamente buio. C’è una specie di scintillio nelle foglie, simile al chiarore della luna o delle stelle. Crescono anche salici, là, e querce e abeti e altre piante; ma via via che ci si addentra, si incontrano solo gli alberi del bosco. Le loro radici scendono più in profondità dell’isola stessa. Alcuni sono alberi enormi, altri snelli, ma non se ne vedono molti caduti, né si vedono molti arboscelli. Vivono a lungo, per tantissimo tempo. — La sua voce si era fatta sommessa, sognante. — Si può continuare a camminare alla loro ombra, alla loro luce, senza che essi finiscano mai.

— Ma Roke è un’isola così grande?

Ged l’aveva guardata sereno, sorridendo. — Le foreste qui sul monte Gont sono quella foresta… Tutte le foreste lo sono.

E adesso Tenar poteva vedere finalmente il Bosco immanente. Seguendo Lebannen, erano saliti lungo le strade tortuose della città di Thwil, attirando uno stuolo di cittadini e di bambini accorsi a vedere e salutare il loro sovrano. Quella folla festosa a poco a poco si disperse, mentre i viaggiatori lasciavano la città percorrendo un viottolo tra siepi e fattorie, una via che diventava uno stretto sentiero oltre l’altura tondeggiante del poggio di Roke.

Ged le aveva parlato anche del poggio. In quel luogo, diceva, tutta l’arte magica era forte, tutte le cose assumevano la loro vera natura. — Là, la nostra magia e i Vecchi poteri della terra si incontrano, e sono una cosa sola.

Il vento soffiava tra l’erba alta e ingiallita sul colle. Un asinelio si allontanò goffamente al galoppo attraverso un campo di stoppie, agitando la coda. Del bestiame camminava lentamente lungo una staccionata che intersecava un ruscello. E c’erano alberi davanti a loro, alberi scuri, ombrosi.

Seguirono il re oltre un cancelletto e lungo un ponticello, giungendo a un prato soleggiato ai margini del bosco. Vicino al ruscello c’era una casupola decrepita. Irian si staccò dal gruppo, attraversò il prato di corsa fino alla casa, e accarezzò il telaio della porta quasi accarezzasse un cavallo o un cane dopo una lunga assenza. — Cara casa! — disse. E, girandosi verso gli altri, sorrise. — Vivevo qui — spiegò. — Quando ero Libellula.

Si guardò attorno, scrutando le fronde del bosco, poi si mise a correre di nuovo. — Azver! — gridò.

Un uomo era uscito dall’ombra degli alberi alla luce del sole. I suoi capelli splendevano come argento dorato. Rimase immobile mentre Irian correva da lui. Tese le mani verso la donna, e lei le strinse. — Non ti brucerò, non ti brucerò questa volta — stava dicendo lei, ridendo e piangendo, ma senza versare lacrime. — Terrò spento il mio fuoco!

Si avvicinarono e si guardarono negli occhi, e lui le disse: — Figlia di Kalessin, benvenuta a casa.

— Mia sorella è con me, Azver — annunciò Irian.

L’uomo girò il viso, una faccia kargica dura, dalla pelle chiara, vide Tenar e fissò Tehanu. Le andò accanto. Si inginocchiò davanti alla giovane. — Hama Gondun! - disse, e ripeté: — Figlia di Kalessin.

La giovane rimase un attimo immobile. Lentamente, gli porse la mano… la mano destra, quella bruciata, l’arto adunco. Lui la prese, piegò il capo, e la baciò.

— Ho l’onore di essere stato il tuo profeta, donna di Gont — dichiarò, con un misto di tenerezza e di esultanza.