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— Perché l’hai richiamato? — domandò il re, non in tono di rimprovero, ma pretendendo una risposta.

Dopo una lunga pausa, arcigno, l’evocatore disse: — Perché avevo il potere di farlo.

Passeggiarono in silenzio, percorrendo un sentiero tra i grandi alberi. C’era molto buio su entrambi i lati, ma la luce delle stelle brillava grigia seguendo il loro cammino.

— Ho sbagliato. Ma non è giusto voler morire — riprese. Nella sua voce si coglieva l’accento aspro della Distesa Est. Parlava sommesso, quasi supplichevole. — Per chi è molto vecchio, molto malato, può darsi che sia giusto. Ma la vita ci è data. Sicuramente è sbagliato non conservare e aver caro questo grande dono!

— Anche la morte ci è data — osservò il re.

Alder giaceva su un pagliericcio sopra l’erba. Doveva rimanere fuori sotto le stelle, aveva detto lo strutturatore, e il vecchio maestro erborista era d’accordo con lui. Il convalescente dormiva, e Tehanu gli sedeva accanto, immobile.

Tenar sedeva sulla soglia della casupola di pietra e la osservava. Le grandi stelle dell’estate inoltrata brillavano sulla radura: la più alta era la stella chiamata Tehanu, il Cuore del cigno, il perno del cielo.

Seserakh uscì silenziosa dalla casa e si sedette sulla soglia vicino a lei. Si era tolta il cerchietto che tratteneva il velo, sciogliendo la massa di capelli fulvi.

— Oh, amica mia — mormorò — che ne sarà di noi? I morti stanno venendo qui. Li senti? Sono come la marea che cresce. Oltre quel muro. Penso che nessuno possa fermarli. Tutti i morti, dalle tombe di tutte le isole dell’Ovest, da tutti i secoli…

Tenar sentiva il battito, i richiami, nella testa e nel sangue. Adesso, come tutti gli altri, sapeva quello che Alder sapeva da tempo. Ma si aggrappò a quello in cui confidava, anche se la fiducia era diventata semplice speranza e disse: — Sono solo i morti, Seserakh. Abbiamo costruito un muro falso. Dev’essere demolito. Però c’è un muro vero.

Tehanu si alzò e si avvicinò adagio alle due donne. Si sedette sul gradino sotto di loro.

— Sta bene, dorme — sussurrò.

— Eri là con lui? — chiese Tenar. Lei annuì. — Eravamo al muro.

— Cos’ha fatto l’evocatore?

— L’ha chiamato… lo ha riportato indietro con la forza.

— L’ha riportato in vita.

— Sì, in vita.

— Non so cosa temere di più — disse la madre. — La morte o la vita? Vorrei smettere di avere paura.

Il volto di Seserakh, l’onda calda dei suoi capelli, si chinò un attimo sulla spalla della donna, sfiorandola con una lieve carezza. — Tu sei coraggiosa, coraggiosa — sussurrò la principessa. — Ma… ahimè! Io temo il mare! E temo la morte!

Tehanu sedeva tranquilla. Nel chiarore fioco che aleggiava tra gli alberi, Tenar notò come la mano snella della figlia fosse posata su quella bruciata e deforme.

— Penso che quando morirò — disse la ragazza con la solita voce bassa e strana — potrò restituire il soffio che mi ha dato la vita. Potrò restituire al mondo tutto quello che non ho fatto. Tutto quello che avrei potuto essere e non sono riuscita a realizzare. Tutte le scelte che non ho compiuto. Tutte le cose che ho perso e consumato e sprecato. Potrò restituire tutto quanto al mondo. Alle vite che non sono ancora state vissute. Quello sarà il dono che farò al mondo, per ringraziarlo di avermi dato la vita che ho vissuto, l’amore che ho conosciuto, il respiro che ho respirato.

Alzò lo sguardo alle stelle e sospirò. — Non per molto tempo ancora — mormorò. Poi si girò verso la madre.

Seserakh accarezzò delicatamente i capelli della donna, si alzò, ed entrò in casa silenziosa.

— Madre, fra breve, penso…

— Lo so.

— Non voglio lasciarti.

— Devi lasciarmi.

— Lo so.

Rimasero sedute nell’oscurità luccicante del Bosco immanente, taciturne.

— Guarda — sussurrò Tehanu. Una stella cadente attraversò il cielo, una rapida scia di luce che svanì lentamente.

Cinque maghi sedevano al chiarore stellare. — Guardate — disse uno di loro, seguendo con la mano la scia della stella luminosa.

— L’anima di un drago che muore — fece Azver lo strutturatore. — Così dicono a Karego-At.

— I draghi muoiono? — chiese Onice, meditabondo. — Non come noi, penso…

— Non vivono come noi. Si muovono tra i mondi. Così dice Orm Irian. Dal vento del mondo all’altro vento.

— Come noi abbiamo cercato di fare — disse Seppel. — Senza riuscire.

Azzardo lo guardò, incuriosito. — A Paln, avete sempre conosciuto questa storia, questo racconto che abbiamo sentito oggi… della separazione dei draghi e del genere umano, e della creazione della terra desolata?

— Non come l’abbiamo appreso oggi. A me avevano insegnato che il verw nadan fu il primo grande trionfo dell’arte magica. E che lo scopo della magia fosse di trionfare sul tempo e sulla vita per sempre… E questo spiega i mali causati dal sapere pelnico.

— Almeno, voi avete conservato la conoscenza madre che noi abbiamo disprezzato — disse Onice. — Come l’ha conservata il tuo popolo, Azver.

— Ebbene, voi avete avuto il buonsenso di costruire la vostra Grande casa qui — dichiarò lo strutturatore, sorridendo.

— Ma l’abbiamo costruita male — disse Onice. — Tutto quello che costruiamo, lo costruiamo male.

— Dunque dobbiamo abbatterlo — disse Seppel.

— No — replicò Azzardo. — Noi non siamo draghi. Noi viviamo nelle case. Dobbiamo avere qualche muro, almeno.

— Purché il vento possa soffiare dalle finestre — disse Azver.

— E chi entrerà dalle porte? — chiese il portinaio, con l’abituale voce pacata.

Ci fu una pausa. Un grillo trillò solerte in un punto della radura, tacque, trillò di nuovo.

— Draghi? — disse Azver.

Il portinaio scosse il capo. — Penso che forse la separazione iniziata, e poi non rispettata, alla fine giungerà a compimento — disse. — I draghi andranno liberi, e ci lasceranno qui con la scelta che abbiamo fatto.

— La conoscenza del bene e del male — disse Onice.

— La gioia di fare, foggiare — disse Seppel. — La nostra maestria.

— E la nostra avidità, la nostra debolezza, la nostra paura — aggiunse Azner.

Allo stridio del grillo rispose un altro grillo, più vicino al ruscello. I due trilli vibrarono, si sovrapposero, ritmicamente e fuori tempo.

— Quello che temo — disse Azzardo — e lo temo a tal punto da avere paura a parlarne, è questo: che quando i draghi andranno via, la nostra maestria scompaia con loro. La nostra arte. La nostra magia.

Il silenzio degli altri dimostrò che anche loro temevano la stessa cosa. Ma infine il portinaio parlò, pacato ma deciso. — No, non credo. Loro sono la creazione, sì. Ma noi abbiamo appreso la creazione. L’abbiamo fatta nostra. Non può esserci strappata. Per perderla dobbiamo dimenticarla, gettarla via.

— Come ha fatto il mio popolo — disse Azver.

— Però il tuo popolo ha ricordato cos’è la terra, cos’è la vita eterna — intervenne Seppel. — Mentre noi l’abbiamo dimenticato.

Ci fu un altro lungo silenzio.

— Potrei allungare la mano e toccare il muro — disse Azzardo, con un filo di voce, e Seppel osservò: — Sono vicini, sono vicinissimi.

— Come facciamo a sapere cosa dovremmo fare? — chiese Onice.

Azver parlò nel silenzio che seguì la domanda. — Una volta, quando era qui con me nel Bosco immanente, l’arcimago mio signore mi disse che aveva trascorso la vita imparando a decidere il da farsi in situazioni in cui non doveva decidere nulla perché non aveva scelta e non poteva agire che in un solo modo.

— Vorrei che lui fosse qui, adesso — disse Onice.