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— Kalessin!

Era la voce di Tehanu. Alder la guardò. La giovane stava scrutando in alto, verso Ovest. Non le interessava la terra.

Alzò le braccia. Un fuoco le scorse lungo le mani, le braccia, nei capelli, sulla faccia e sul corpo, formando due grandi ali sopra il capo, e sollevandola nell’aria, una splendida creatura fiammeggiante.

Lei lanciò un grido, un grido chiaro, che non era nessuna parola. Volò alta, impetuosa, veloce, salendo nel cielo dove la luce stava crescendo e un vento bianco aveva cancellato le stelle insignificanti.

Dalle schiere dei morti, qui e là, alcuni, come lei, avvamparono e si tramutarono in draghi, e si librarono in volo, montando sul vento.

I più avanzarono a piedi. Non si accalcavano, non gridavano adesso, ma camminavano sicuri e senza fretta verso gli squarci nel muro: grandi moltitudini di uomini e donne, che una volta giunti al muro demolito non esitavano, lo oltrepassavano e sparivano… un filo di polvere, un alito che brillava un istante nella luce sempre più intensa.

Alder li osservò. Teneva ancora in mano, dimenticato, un sasso di riempimento che aveva staccato dal muro per smuovere una pietra più grossa. Osservò i morti che si liberavano. E finalmente la vide in mezzo a loro. Allora gettò il sasso e le andò incontro. — Giglio — disse. Lei lo vide e sorrise e gli tese la mano. Lui la prese, e insieme superarono la barriera che li separava dalla luce del sole.

In piedi accanto al muro diroccato, Lebannen osservò l’alba che rischiarava l’Est. C’era un Est, adesso, dove prima non esisteva alcuna direzione, alcuna via da prendere. C’erano Est e Ovest, luce e movimento. La terra stessa si muoveva, tremava, si scuoteva come un grande animale, e il muro di pietra, nei punti in cui non lo avevano abbattuto, vibrò e si sbriciolò. Del fuoco si sprigionò dai lontani picchi neri delle montagne chiamate Dolore, il fuoco che ardeva nel cuore del mondo, il fuoco che nutriva i draghi.

Lebannen guardò il cielo sopra quelle montagne e vide — come avevano visto una volta lui e Ged sul mare occidentale — i draghi che volavano sul vento del mattino.

Tre di essi vennero volteggiando verso di lui, che si trovava con gli altri vicino alla cresta della collina, sopra il muro diroccato. Il re ne riconobbe due: Orm Irian e Kalessin. Il terzo aveva una corazza lucente, dorata, con ali d’oro. Era quello che volava più alto, e non si abbassò verso il gruppo. Orm Irian svolazzò giocosa attorno all’amica, poi si allontanarono, inseguendosi, salendo sempre più, finché tutt’a un tratto i raggi più alti del sole nascente colpirono Tehanu, che brillò come il proprio nome, una grande stella sfolgorante.

Kalessin volteggiò ancora, si abbassò, e si posò imponente tra le rovine del muro.

— Agni Lebannen - disse il drago al re.

— Anziano — disse il re al drago.

— Aissadan verw nadannan - disse la poderosa voce sibilante, simile a un mare di cembali.

Piantato saldamente accanto al re, Brando l’evocatore di Roke ripeté le parole del drago nella Lingua della creazione, poi le pronunciò in hardico: — Ciò che è stato diviso è diviso.

Lo strutturatore era vicino a loro, i capelli lucenti nel chiarore crescente del giorno. Disse: — Ciò che è stato costruito è infranto. Ciò che è stato infranto è ripristinato.

Poi guardò con struggimento il cielo, il drago d’oro e quello rosso-bronzeo; ormai si scorgevano a stento, erano molto lontani, volteggiavano in ampi cerchi sopra la lunga distesa digradante, dove città fantasma deserte si dissolvevano alla luce del giorno.

— Anziano — disse, e la lunga testa tornò a girarsi lentamente verso di lui.

— Qualche volta, lei seguirà la via del ritorno attraverso la foresta? — chiese Azver nella lingua dei draghi.

I grandi occhi gialli insondabili di Kalessin lo fissarono. L’enorme bocca sembrava, come la bocca delle lucertole, chiusa in un sorriso. Non parlò.

Poi, trascinando pesantemente la propria mole lungo il muro e facendo cadere e scivolare sotto il ventre ferreo le pietre ancora in piedi, Kalessin contorcendosi si allontanò da loro, e con uno slancio e un fragore di ali spiegate, si staccò dal fianco della collina e volò basso verso le montagne, i cui picchi adesso erano coperti di fumo e di vapore bianco, e brillavano lambiti dal fuoco e dal sole.

— Venite, amici — disse la voce sommessa di Seppel. — Per noi non è ancora il momento di andare liberi.

Il sole illuminava il cielo sopra la chioma degli alberi più alti, ma nella radura c’era ancora il grigio gelido dell’alba. Tenar sedeva con la mano posata su quella di Alder, il capo chino. Guardò la fredda rugiada che imperlava uno stelo d’erba, il disegno di quelle goccioline così minuscole e delicate, che riflettevano tutto il mondo.

Qualcuno pronunciò il suo nome. Lei non alzò lo sguardo.

— È andato — disse.

Lo strutturatore le si inginocchiò accanto. Toccò con dolcezza il volto di Alder.

Rimase un poco in silenzio. Poi disse alla donna, nella sua lingua: — Mia signora, ho visto Tehanu. Vola splendente sull’altro vento.

Lei lo guardò. Era pallido ed esausto, ma nei suoi occhi c’era un’ombra di giubilo.

Fece uno sforzo, poi, brusca, la voce quasi impercettibile, disse: — Sana e salva?

Lui annuì.

Tenar accarezzò la mano di Alder, la mano del riparatore, bella, abile. Le vennero le lacrime agli occhi.

— Lasciami stare con lui per un po’ — disse, e cominciò a piangere. Si coprì il viso e versò lacrime copiose, amare, silenziose.

Azver andò dal gruppetto vicino alla porta della casa. Onice e Azzardo erano accanto all’evocatore, che stava, massiccio e ansioso, accanto alla principessa. Lei era accovacciata vicino a Lebannen, le braccia stese sul suo corpo, lo proteggeva, non voleva che nessuno dei maghi lo toccasse. Le lampeggiavano gli occhi. In una mano stringeva il pugnale d’acciaio del sovrano.

— Sono tornato con lui — disse Brando ad Azver. — Ho cercato di stare con lui. Non ero sicuro della via. La principessa non vuole che mi avvicini a lui.

— Ganai - disse Azver, il titolo della giovane in hardico, "principessa".

Lei si voltò di scatto. — Oh, sia ringraziato Atwah-Wuluah e sia lodata la Madre per sempre! — strillò. — Signore Azver! Manda via questi maledetti-stregoni. Uccidili! Hanno ucciso il mio re. — Gli porse il pugnale, tenendolo per la sottile lama d’acciaio.

— No, principessa. Lui è andato con il drago Irian. Ma questo stregone lo ha riportato da noi. Lascia che lo veda. — Lo strutturatore s’inginocchiò, e girò leggermente il volto di Lebannen per osservarlo meglio, poi gli posò le mani sul petto. — È freddo — disse. — È stato un ritorno arduo… Prendilo tra le braccia, principessa. Scaldalo.

— Ho provato — disse lei, mordendosi un labbro. Gettò a terra il pugnale e si chinò sull’uomo privo di sensi. — Oh, povero re! — mormorò in hardico. — Caro, povero re!

Azver si alzò e disse all’evocatore: — Penso che si rimetterà, Brando. Adesso, lei è molto più utile di noi.

L’evocatore allungò la grossa mano e strinse il braccio dello strutturatore. — Adesso riposati — disse.

— Il portinaio — disse l’altro, diventando ancor più pallido e guardandosi attorno.

— È tornato con il mago pelnico — disse Brando. — Siediti, Azver.

Lui obbedì, sedendosi sul ceppo occupato dal vecchio cambiatore quando si erano disposti in cerchio il pomeriggio prima. Sembrava fossero trascorsi mille anni. I vecchi erano tornati alla scuola, la sera… E poi era iniziata la lunga notte, la notte che aveva portato il muro di pietra così vicino che dormire equivaleva a trovarsi là, e trovarsi là era terrificante, così nessuno si era addormentato. Nessuno, forse, in tutta Roke, in tutte le isole… Solo Alder, che li aveva preceduti e guidati… Azver si accorse che stava sonnecchiando e tremava.