Il ponte di coperta era anche gremito di passeggeri, uomini, donne e bambini, fitti come le zanzare del fiume, che sciamavano e si aggiravano in mezzo al carico. Quasi trecento persone si accalcavano a bordo, ed ognuna di esse aveva pagato un dollaro come prezzo del viaggio fino a St. Louis. La traversata era tutto ciò a cui avevano diritto; mangiavano il cibo che portavano a bordo con sé, ed i più fortunati trovavano un cantuccio per dormire sul ponte. Si trattava in massima parte di forestieri, irlandesi, svedesi ed olandesi grandi e grossi, tutti quanti a sbraitare l’uno all’altro in lingue che Marsh non comprendeva, a bere, bestemmiare e dar legnate ai propri figli. Laggiù vi si trovavano pure cacciatori di pelli e lavoranti comuni, troppo poveri per permettersi qualcosa di meglio del passaggio sul ponte alle tariffe di Marsh.
I passeggeri delle cabine aveva pagato dieci dollari tondi tondi, o almeno tanto era costato il biglietto a coloro che compivano l’intero tragitto fino a St. Louis. Quasi tutte le cabine erano state occupate, nonostante l’esosità del prezzo. Il commissario disse a Marsh che avevano a bordo centosettantasette passeggeri di prima classe, ed il numero parve a Marsh di buon auspicio, vista la presenza di tutti quei sette. L’elenco degli imbarcati comprendeva una dozzina di piantatori, il capo di una grande ditta di St. Louis specializzata nella vendita e lavorazione di pellicce, due banchieri, un ricco inglese con le sue tre figlie e quattro suore dirette nell’Iowa. C’era anche un pastore a bordo, ma ciò non costituiva alcun problema visto che non trasportavano giumente grigie; tra la gente del fiume tutti sapevano bene che avere a bordo un pastore ed una cavalla grigia era un invito al disastro.
Quanto all’equipaggio, Marsh ne era pienamente soddisfatto. I due piloti, behr quelli non erano niente di speciale, ma erano stati assunti solo temporaneamente per portare il battello fino a St. Louis. Essi lavoravano sul Fiume Ohio e il Fevre Dream era destinato al traffico di New Orleans. Il Capitano aveva già spedito delle lettere a St. Louis ed a New Orleans, sicché una coppia di valenti piloti del basso Mississippi attendeva l’arrivo del Fevre Dream giù al Planters’ House. Il resto della ciurma, invece, era di ottimo livello e di questo Marsh ne era sicuro. Il primo macchinista era Whitey Blake, un ometto focoso le cui imponenti basette bianche erano sempre insozzate da qualche macchia di grasso dei motori. Whitey era stato con Abner Marsh sull’Ely Reynolds e successivamente sull’Elizabeth A. e sul Sweet Fevre, e non esisteva un altro macchinista che conoscesse un motore a vapore meglio di lui.
Jonathan Jeffers, il commissario di bordo, portava gli occhiali con la montatura in oro e i capelli castani impomatati e pettinati all’indietro. Portava anche eleganti ghette con i bottoni. Però, nel far calcoli e far quadrar le cifre era un vero terrore, non dimenticava mai nulla, non faceva mai un cattivo affare e non perdeva mai agli scacchi. Jeffers aveva lavorato nell’ufficio amministrativo della linea di navigazione di Marsh finché il Capitano non lo aveva chiamato sul Fevre Dream. Non se l’era fatto chiedere due volte. Oltre la facciata, dietro quella parvenza da damerino, Jeffers era un uomo del fiume fin nel profondo della sua cupa anima di contabile. Portava anche un bastone da passeggio con l’impugnatura d’oro.
Il cuoco era un uomo di colore, libero, di nome Toby Lanyard. Lavorava per Marsh da quattordici anni, sin da quando il Capitano aveva personalmente sperimentato la sua abilità culinaria giù a Natchez, lo aveva comprato e lo aveva reso libero.
E il capitano in seconda — che si chiamava Michael Theodore Dunne ma che tutti avevano sempre chiamato Mike il Peloso, tranne gli scaricatori che lo chiamavano Mister Dunne Sir — era uno dei più corpacciuti, irascibili e caparbi uomini di tutto il Mississippi. Superava di una buona misura il metro e ottanta di altezza; aveva gli occhi verdi, le basette nere ed una folta peluria nera e ricciuta che gli ricopriva le braccia, le gambe ed il petto. Era indicibilmente sboccato e di temperamento collerico, e non andava mai in nessun posto senza la sua spranga di ferro lunga un metro. Abner Marsh non lo aveva mai visto percuotere nessuno con quella spranga, tranne una volta o due, ma la teneva sempre stretta in una mano, e tra gli scaricatori correva voce che una volta aveva spaccato la testa ad un uomo che aveva fatto cadere nel fiume una botte di brandy. Era un uomo duro, tutto d’un pezzo, e nessuno faceva cadere niente quando c’era lui di guardia. Tutti tra la gente del fiume nutrivano un timoroso rispetto per Mike Dunne detto il Peloso.
Non c’è che dire, formavano un equipaggio decisamente in regola, quegli uomini del Fevre Dream. Fin da primo giorno, ognuno fece il suo lavoro, e così, quando ormai tutte le stelle brillavano nel cielo di New Albany, le merci e i passeggeri erano a bordo e registrati nei documenti, il vapore era alto ed i forni ruggivano e fiammeggiavano di una terribile luce vermiglia, e da essi si irradiava un calore così intenso che sul ponte di coperta faceva più caldo che a Natchez-sotto-la collina in una notte serena, ed un buon pasto si stava preparando nella cucina. Abner Marsh controllò ogni cosa, e quando fu soddisfatto salì sul ponte di comando, lassù, dove la cabina di pilotaggio troneggiava nobile e splendente al di sopra del caos e dello strepito che imperversavano di sotto. «Fallo uscire,» disse al pilota. E il pilota ordinò che aumentassero il vapore e manovrò il timone dirigendo all’indietro le due grandi ruote laterali. Abner Marsh si tenne rispettosamente alle sue spalle, e il Fevre Dream uscì dal porto, scivolando dolcemente sulle nere acque dell’Ohio rischiarato dalle stelle.
Una volta al largo, il pilota invertì il moto delle ruote e diresse il battello a valle, seguendo il corso della corrente. Ed il grande Fevre Dream vibrò un poco e scivolò nel canale principale senza il minimo intoppo. Le ruote cantavano il loro allegro chunkachunka mentre scuotevano ed intorbidavano l’acqua, e il battello procedeva via via più veloce, sospinto dalla forza della corrente che si sommava all’energia del vapore. Il battello scintillava e correva, rapido come il sogno di un battelliere, lesto come il peccato, veloce come l’Eclipse. Due lunghi strascichi di fumo nero si levavano dai fumaioli innalzandosi sulle loro teste, e nuvole di scintille guizzavano e svanivano dietro di essi, calando sul fiume per morirvi come tante lucciole rosse e arancione. Agli occhi di Abner Marsh, quella scia di fumo, vapore e scintille che si lasciavano dietro era qualcosa di gran lunga più strabiliante e spettacolare di tutti i fuochi d’artificio che aveva visto a Louisville per la Festa del 4 luglio. Il pilota sollevò una mano e tirò la sirena, ed il lungo strido li assordò; quel fischio stridulo e penetrante era meraviglioso, melanconico e inquietante come un lamento funebre, potente e roboante da essere udito per miglia e miglia.
Non prima che le luci di Louisville e New Albany disparvero dietro di loro e il Fevre Dream si spinse tra le rive nere e desolate, spoglie come lo erano state cent’anni prima, il Capitano Abner Marsh s’accorse che Joshua York era salito alla timoniera ed era in piedi al suo fianco.
Si era messo in pompa magna per l’occasione. Indossava pantaloni e marsina del bianco più puro, e sotto faceva spicco un gilet blu notte sopra una camicia bianca piena di gale e pizzi, la cravatta era di seta blu. La catena dell’orologio che si allungava trasversalmente sul gilet era d’argento, ed un grande anello, anch’esso d’argento e incastonato con una fulgida gemma blu, riluceva sopra una pallida mano. Bianco, blu e argento; questi erano i colori del battello, e York sembrava parte integrante di esso. La cabina di pilotaggio aveva sfarzose tende di tessuto bianco e argentato, ed il grande divano imbottito sistemato verso il fondo della cabina era blu, come lo era il telo d’incerato. «Ehi, vi siete messo in ghingheri. Mi piace la vostra tenuta, Joshua,» gli disse Marsh.