Marsh socchiuse gli occhi e guardò nella direzione di Joshua. Una volta lo aveva battuto. Una volta era riuscito a batterlo, bestia o non bestia che fosse. Perché non poteva farlo di nuovo? Perché? Marsh serrò forte le dita intorno al braccio e dondolandosi lentamente avanti e indietro cercò di allontanare il dolore così da schiarirsi la mente. Perché, perché, perché?
Poi, d’improvviso, capì. Gli succedeva sempre così quando non riusciva a ricordare le cose. Forse era un po’ lento, ma il Capitano Abner Marsh non dimenticava mai. Sì, ora, finalmente, era riuscito a catturare il ricordo, la spiegazione. La bevanda. Ricostruì l’episodio nella mente. Aveva vuotato l’ultima bottiglia nella gola di Joshua quando era fuggito via in pieno sole. L’ultima goccia gli era caduta sullo stivale ed aveva gettato la bottiglia nel fiume. Joshua era andato via alcune ore dopo e c’era voluto… quanto tempo?… giorni, erano passati dei giorni prima che facesse ritorno al Fevre Dream. Aveva corso, corso disperatamente giorni e giorni per le sue dannate bottiglie, fuggendo la sete. E poi, quando aveva trovato il battello, e tutti i morti, ed aveva cominciato a schiodare le assi dalla porta di una cabina era arrivato Juian… Marsh rammentò le parole esatte che aveva pronunziato Joshua in quel momento… “Gridavo, urlavo contro di lui parole sconnesse. Volevo vendetta. Desideravo ucciderlo come mai avevo desiderato con nessun altro in tutta la mia vita, volevo squarciargli quella gola bianca e bere il suo sangue maledetto! La mia rabbia…” No, pensò Marsh, non solo rabbia. Sete. Joshua era giunto ad un delirio tale che neppure lui stesso se n’era reso conto. Ma si trovava nel primo stadio della Sete Rossa. Evidentemente, non appena Julian si fu allontanato, dovette bere un bicchiere del suo elisir, e così non capì mai cosa veramente lo avesse spinto a quel parossismo, perché quella volta era stato così diverso.
Marsh si domandò se Joshua sapesse la vera ragione per la quale si era messo a schiodare furiosamente le assi che ostruivano la porta, si domandò che cosa sarebbe successo se Julian non fosse intervenuto, e nel porsi quelle domande una fredda sensazione gli raggelò il sangue. Non c’era da stupirsi che Joshua avesse vinto in quell’occasione, e soltanto in quella. Le ustioni che lo straziavano, le paura, la carneficina intorno a lui, giorni e giorni senza bere… doveva essere stata la Sete. La bestia era desta in lui quella notte, e più forte di quella di Julian.
Nel giro di pochi istanti un’intensa eccitazione pervase Abner Marsh. Poi, rapidamente, gli balenò in mente che le sue folli speranze miravano al bersaglio sbagliato. Forse c’era del vero nella sua deduzione, ma non avrebbe portato a nulla di buono per loro. In quest’ultima fuga Joshua aveva preso una generosa dose della sua bevanda. Ne aveva bevuto mezza bottiglia a New Orleans prima di partire alla volta della piantagione di Julian. Marsh non riusciva ad immaginare in quale modo avrebbe potuto risvegliare la Febbre in Joshua, la Sete che costituiva la loro ultima speranza, l’unica possibile via di scampo…
Gli occhi del Capitano corsero nuovamente al fucile, il maledetto inutile fucile. «All’inferno,» mormorò. Dimentica il fucile, disse a se stesso. Non sarebbe servito a nulla, bisognava pensare, pensare come avrebbe fatto Mister Jeffers, escogitare qualcosa. Come in una corsa tra battelli, pensò Marsh. In quei casi spingere il battello a tutto vapore per sorpassare l’avversario non basta. No, correre non basta, bisogna usare il cervello, bisogna poter contare su di un pilota sveglio ed esperto, uno che conosca uno per uno tutti i bracci secondari e sappia passarvi rasente come la lama di un rasoio, e non solo, magari hai comprato tutto il legno di faggio disponibile sul mercato lasciando all’avversario soltanto cataste di legno di pioppo nero. E magari hai anche una buona scorta di lardo a bordo! Insomma: trucchi! Stratagemmi!
Marsh aggrottò le sopracciglia e si tirò le basette con la mano illesa. Lui non poteva fare nulla, di questo ne era ben consapevole. Tutto dipendeva da Joshua. Solo che Joshua stava bruciando vivo, Joshua diventava più debole ogni minuto che passava, e non si sarebbe mosso da lì fintantoché la vita di Marsh fosse stata a repentaglio. Se solo ci fosse stato un modo per smuovere Joshua… per risvegliare la sete in lui… un qualcosa… Come funzionava quella faccenda della sete? Ritornava una volta al mese o giù di lì, solo che non veniva affatto quando si usava la bottiglia. Non c’era un altro modo? Qualcosa che potesse innescare quel folle desiderio? Qualcosa di diverso che facesse esplodere la Sete? Marsh era convinto che un sistema ci fosse, solo non riusciva ad immaginarlo. Forse la rabbia aveva a che fare con essa, ma da sola non era sufficiente. La bellezza? Le cose belle lo tentavano anche se aveva bevuto il suo elisir. Probabilmente aveva scelto lui come suo socio perché gli avevano detto che era l’uomo più brutto del fiume. Ma era ancora poco. Quel dannato Damon Julian era bello abbastanza e quanto alla rabbia, era capace di scatenarla in Joshua, altroché se sapeva farlo! Ma neanche questo bastava, perché Joshua perdeva sempre, sempre. La bevanda, doveva essere la bevanda… Marsh cominciò a ripensare a tutte le storie che Joshua gli aveva raccontato, a tutte le notti oscure, le morti, le terribili occasioni in cui la Sete si era impadronita del suo corpo e della sua anima.
…mi colpì in pieno stomaco disse Joshua, e presi a sanguinare in abbondanza… mi alzai. E fui invaso da una strana sensazione… Julian sorseggiava il vino, sorrideva, mentre diceva Temevi davvero che ti avrei fatto del male quella notte nel mese di agosto? Oh, forse sì, quando la rabbia e il dolore erano in me. Ma non prima… Marsh vide il suo volto, contorto e bestiale, mentre estraeva il bastone di Jeffers dal suo corpo… ricordò Valerie, morente nella barca, ricordò il modo in cui aveva urlato e si era gettata sulla gola di Karl Framm… risentì Joshua che diceva… l’uomo mi colpì di nuovo ed io gli sferrai un manrovescio… allora mi fu di nuovo addosso…
Doveva essere così, pensò Marsh, non poteva essere altrimenti, era l’unica cosa a cui riusciva a pensare, l’unica cosa che la sua mente fosse capace di concepire. Alzò gli occhi all’osteriggio. L’angolo dell’obliquo raggio di sole era più acuto adesso ed a Marsh sembrò che la luce avesse acquistato una prima, quasi impercettibile, sfumatura rossiccia. Ora Joshua era parzialmente in ombra. Un’ora prima questa visione avrebbe recato a Marsh un gran sollievo. Adesso non fu più tanto sicuro.
«Aiutatemi…» disse la voce. Un sussurro stentato, un rantolo spettrale soffocato da un’atroce sofferenza. Eppure lo sentirono. Nel silenzio ora più oscuro, tutti lo udirono.
Billy la Serpe era sbucato fuori dalla penombra, strisciando sul ventre e lasciando una scia di sangue sul tappeto dietro di lui. In realtà non stava strisciando, ma si trascinava. Conficcando il suo dannato coltello nelle tavole del ponte e puntellandosi su di esso con le braccia si trascinava avanti, contorcendosi, le gambe e tutta la metà inferiore del corpo struscianti sulla superficie di legno. La spina dorsale disegnava una curva del tutto innaturale. A stento Billy conservava sembianze umane. Coperto di sudiciume e viscida materia, incrostato di sangue secco, continuava a sanguinare sotto gli sguardi dei presenti. Si tirò avanti di un’altra trentina di centimetri. Sembrava che il torace gli si fosse incavato, sfondato quasi, e il dolore gli aveva trasformato il volto in una maschera orripilante.