Joshua avanzò lentamente; Julian arretrò, sorridendo. «Non io, Joshua,» disse. «È stato il Capitano a ferirti. Il Capitano.» Joshua si fermò e lanciò a Marsh una rapida occhiata, e per un infinito istante Marsh attese di scoprire per quale sentiero lo avrebbe condotto la sete. Chi sarebbe stato il padrone di quell’essere? Chi avrebbe guidato le azioni di Joshua? L’Uomo o la Bestia? Chi?
Un esile sorriso a Damon Julian, ed ebbe inizio la lotta silente.
Fiaccato dall’immensa mole del sollievo, Marsh si fermò un istante per ritrovare le forze prima di chinarsi a raccogliere il fucile da dove Julian lo aveva lasciato cadere. Lo depose sul tavolo, aprì il caricatore, inserì le cartucce, lentamente e laboriosamente. Quando lo imbracciò, Damon Julian era in ginocchio. Le dita affondate nell’orbita dilaniata, estrasse l’occhio cieco e sanguinolento. Sollevò quindi la mano ed offrì a York il prezioso dono, York si chinò a ricevere la sanguinosa offerta.
Abner Marsh si avvicinò rapidamente, con un scatto deciso spinse la bocca del fucile contro la tempia di Julian, insinuandola tra i bei riccioli neri, e fece fuoco.
Joshua parve sbigottito, come se fosse stato bruscamente strappato ad un sogno. Marsh grugnì e lasciò cadere il fucile. «Non volevate questo,» disse a Joshua. «Non muovetevi. Ho io ciò che volete.» Si trascinò a passi pesanti dietro il banco del bar e individuò le scure bottiglie di vino prive d’etichetta. Marsh ne prese una e soffiò via la polvere. Fu allora che casualmente alzò gli occhi e vide tutte le porte aperte, tutti i volti pallidi, intenti a fissarlo. Gli spari, pensò. Gli spari li avevano attirati lì.
Marsh ebbe qualche difficoltà a togliere il sughero con una sola mano, così, infine, ricorse ai denti. Joshua York avanzò verso il bar, barcollava come fosse colto da continue vertigini. Nei suoi occhi la lotta non era cessata. Marsh gli porse la bottiglia, e Joshua allungò la mano afferrandogli con forza il braccio. Marsh restò immobile. Per un interminabile istante non seppe se Joshua avesse preso la bottiglia o gli avesse aperto le vene del polso. «Per tutti noi, Joshua, viene il momento di fare una scelta,» disse piano, stretto nella morsa delle possenti dita di Joshua.
Joshua York restò a fissarlo per un tempo che sembrò pari all’eternità. Poi gli strappò di mano la bottiglia, gettò indietro la testa e ne trangugiò il contenuto. Il nero liquore fluì gorgogliando, colandogli giù per il mento.
Marsh prese una seconda bottiglia dell’abominevole bevanda, la stappò con un colpo secco contro il duro bordo del banco marmoreo del bar e la sollevò per il brindisi. «Al maledettissimo Fevre Dream!»
Bevvero insieme.
EPILOGO
Il cimitero è antico, e rigogliosa vi cresce la vegetazione selvaggia. Le voci del fiume ne riempiono l’aria. Sorge sull’alto di una rupe, e sotto vi scorre il Mississippi, in un fluire incessante, accompagnato dallo scorrere dei millenni. Puoi sedere sull’estremità della rupe, dondolando i piedi liberi nell’aria, e da lì guardare il fiume, imbevendoti di pace e di bellezza. Da lassù il fiume mostra mille facce. Talora è d’oro, e vivo, quando sciami d’insetti gli increspano la superficie, o mulinelli turbinano intorno ad un ramo semisommerso. Al tramonto si fa bronzeo, e poi rosso, e quando tutto rosseggia la tua mente corre a Mosè e ad un altro fiume, distante nel tempo e nello spazio. Nelle notti terse l’acqua scorre cupa e limpida e ti sembra una stola di raso nero, e sotto la superficie scintillante vi scorgi le stelle, ed una luna magica che mutevole danza e chissà per quale incanto la vedi più grande e più bella della gemella che inargenta la volta del cielo notturno. Il fiume muta col mutar delle stagioni. Quando la primavera lo inonda con le sue piogge, esso è bruno e melmoso, e si leva fin sugli alti tronchi degli alberi, fin sugli argini. In autunno, manti di foglie dai mille colori scivolano pigramente alla deriva avvinte nel suo dolce abbraccio azzurro. E d’inverno, il fiume è una dura lastra di ghiaccio, e la neve vi discende mollemente tramutandolo in una strada bianca che nessun viaggiatore può solcare. Il suo niveo fulgore è una lama abbagliante che acceca chi osa volgergli l’occhio. Sotto il ghiaccio, le acque corrono incessanti, gelide, turbolente, mai stanche. E poi, finalmente, il fiume si scuote e il ghiaccio invernale si frantuma col fragore del tuono e si fende in terribili, laceranti crepacci.
Dall’alto del cimitero puoi spiare del fiume ogni umore. Da lì esso t’appare come fu mille anni fa. Ancor oggi la sponda che appartiene all’Iowa non è che una serie ininterrotta d’alberi ed alte scogliere. Il fiume è quieto, vuoto, silente. Mille anni fa saresti rimasto per ore a guardarlo e non avresti veduto che un indiano solitario nella sua canoa di betulla. Resta a guardarlo ugual tempo oggi e vedrai solamente una lunga processione di zattere sospinte da un piccolo rimorchiatore a nafta.
Vi sono stati periodi, da un punto all’altro sulla linea della storia, in cui il fiume pullulava di vita, tempi in cui fumo, fuoco, vapore, sirene erano ovunque. Ora, però, i battelli a vapore sono solo un lontano ricordo. Nulla più agita le acque del fiume. Questa calma non piacerebbe certo ai morti che riposano in quel piccolo cimitero, lassù sulla rupe. Metà di coloro che vi sono sepolti erano gente del fiume.
Anche nel cimitero regna la calma. La maggior parte delle fosse sono state riempite da lungo, lunghissimo tempo, ed ora anche i pronipoti di coloro che vi giacciono sono morti. Rari sono i visitatori, e i pochi che vi giungono si fermano dinanzi ad una sola, modesta tomba.
Alcune delle tombe sono veri e propri monumenti, grandi e sontuosi. Su di una campeggia la statua di un uomo alto, vestito come un pilota di battello, con una sezione di timone tra le mani e lo sguardo perso in lontananza. Parecchie lapidi recano incisi vividi resoconti della vita e della morte sul fiume, narrando di come il tal dei tali era morto durante l’esplosione di una caldaia, o durante la guerra, o annegando nel fiume. Ma i visitatori del piccolo cimitero non avvicinano nessuna di queste tombe. La tomba che cercano è piuttosto modesta, nuda nella sua semplicità. La lapide ha visto ormai cent’anni di intemperie, ma ha resistito tenacemente agli assalti degli elementi. Le parole incise nella pietra sono semplici da leggere: il nome, due date, e due versi di poesia.
Sul nome, scolpita nella pietra con grande abilità e cura meticolosa, fa spicco una piccola decorazione in rilievo, ricca nei particolari, raffigurante due grandi battelli con le ruote laterali impegnati in una gara. Il tempo e le forze della natura hanno lasciato tangibili i loro segni, tuttavia sono ancora visibili le colonne di fumo che si levano dai fumaioli, e par quasi di percepire la velocità della loro corsa sul fiume. Se ti avvicini maggiormente e lasci scorrere le dita sulla piccola scultura, allora potrai leggerne i nomi. Il battello che segue è l’Eclipse, famosissimo ai suoi tempi. Quello in testa risulta ignoto alla maggioranza degli storici del fiume. Sembra che il suo nome fosse: Fevre Dream.
Il visitatore che più spesso degli altri rende onore a quella tomba, puntualmente, ad ogni sua visita, tocca l’effigie dell’ignoto battello, quasi che il gesto gli rechi buona fortuna.