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«Grazie, adesso no,» replicò. Poi, per scusarsi: «Di norma bevo qualcosa quando è quasi l’ora di chiusura, ma mai così presto.» Prima che prendessi il bicchiere, pescò di tasca un nichelino e me lo fece scivolare attraverso il banco. «Mettetelo nel juke box. Numero dodici, magari, a meno che non ci sia qualcosa che preferite.»

Odio i juke box, ma non potevo mostrarmi scortese, dato soprattutto che il nichel era suo. Mi lasciai scivolare giù dallo sgabello e andai accanto al grammofono automatico. Il numero dodici era «Torna a Sorrento», il che era già qualcosa, perchè non si trattava almeno di un rock and roll o di una canzone della prateria. Infilai la moneta e premetti il pulsante. Mentre il meccanismo entrava in azione, guardai gli altri titoli. E rimasi sorpreso, quasi sbalordito. Era tutta roba buona, classici o semiclassici della musica leggera. Alcuni erano notissimi, come Night and Day e Stardust. In genere, erano per sola orchestra, come Torna a Sorrento.

E quando la musica attaccò ebbi una seconda sorpresa: niente di assordante, ma una musica in sordina che ricordava molto da vicino quella dell’alta fedeltà. E la terza sorpresa la ebbi quando, terminata l’introduzione, echeggiò una voce. Ma non veniva dal juke box: si levava dietro le mie spalle.

«Guarda il mare quanto è bello! Spira tanto sentimento, Come il tuo soave accento…»

E che voce! Un baritono poderoso, dolce e splendido come la melodia che stava cantando. Una voce naturale, come era stata quella di Caruso.

Non era, come capii più tardi, quella voce meravigliosa che mi era sembrata al primo momento; in una sala da concerto, quasi non si sarebbe sentita. Ma in un locale delle dimensioni del Bar Sinistro… mio Dio! Mi misi a sedere davanti al bicchiere che mi aspettava e ascoltai con reverenza. Non bevvi neppure un sorso fino a quando non ebbe terminato e il juke box si fermò con uno scatto.

«Bellissimo!» esclamai. «Lo fate spesso?»

«Ogni volta che qualcuno desidera sentirmi. Mi piace cantare.»

Spinsi una moneta verso di lui perchè me la cambiasse. «Datemi qualche nichel allora, accidenti.»

«Ah, Marì! Ah, Marì! Quanto suonno aggio perso pe’ te…»

E poi:

«Ah! Ay! EL CHOCLO cumpliste, fiel, fielmente…»

«Mio Dio!» esclamai. «Ma quante lingue sapete, Cass?»

Rise. «Tre soltanto, italiano, francese e spagnolo, e non troppo bene. Quanto basta per sbrogliarmela e per cantare. Oh, e un poco di tedesco, per cantare lieder, ma sembra che la mia pronuncia sia spaventosa.»

Abbassai gli occhi sul bicchiere ed era vuoto. Ma era entrato un altro cliente e Cass si era spostato per servirlo. Guardai l’orologio e vidi che erano le cinque meno dieci. Avevo pochi minuti, pochi minuti soltanto per decidermi.

Volevo restare a Mayville. Non era soltanto l’effetto de! whisky dopo tre tequila. Non era soltanto la tiepida bellezza di un pomeriggio nell’Arizona. Non era soltanto la ragazza che era passata e che, a detta di Cass, si chiamava Doris Jones e non aveva legami affettivi o altro. Non erano soltanto il Bar Sinistro e Cass e la voce di Cass. Non era soltanto l’atmosfera dominante, il fatto che la cittadina (Hetherton escluso) mi era sembrata accogliente ed amichevole. Non era soltanto l’offerta di lavoro che avevo ricevuto, per poco allettante che potesse sembrare. Erano tutte queste cose assieme. Volevo rimanere lì, se appena mi fosse stato possibile.

E potevo rimanere, se solo lo volevo. Sarei riuscito a vivere con trentacinque dollari la settimana; avevo già in programma di mantenermi con quella cifra per sei mesi, più o meno. Avrei dovuto trovare una stanza non troppo cara, mangiare in locali economici. I vestiti non mi davano pensiero; avevo un guardaroba abbastanza ben fornito. La mia macchina era in buone condizioni e sarebbe durata per altri due anni con qualche piccola riparazione occasionale; le gomme erano quasi nuove. E avevo da parte circa un migliaio di dollari, ai quali avrei potuto attingere in caso di emergenza… o di appuntamenti con Doris Jones. Al termine di due anni sarei stato al verde, ma certo avrei acquistato una più che discreta esperienza, avrei trovato abbastanza facilmente un lavoro più redditizio in un giornale più importante, avrei cominciato la mia vera carriera.

Uscii dal bar di Cass e raggiunsi gli uffici del Sun. Andai a fermarmi davanti alla scrivania di Hetherton. Dissi: «Accetto il posto. E prometto di far del mio meglio per due anni.»

Annuì freddamente. «Presentatevi qui domani mattina alle otto, Spitzer.»

5

Devo ammettere che, per le prime settimane, risultò esatta la previsione di Hetherton, quando mi aveva detto che per un poco gli sarei stato di scarsissimo aiuto. Facevo del mio meglio, ma un conto è imparare una cosa leggendola su un libro, mentre metterla in pratica è una faccenda assolutamente diversa. Dovevo riscrivere quasi tutti gli articoli, e quando riuscivo a mettere assieme qualcosa di buono, o di quasi buono, impiegavo un tempo incredibilmente lungo. Naturalmente, non c’è fretta in un settimanale, se non si è al giorno di chiusura, ma c’è pur sempre una certa quantità di lavoro da smaltire, e non si può buttare via un’ora e mezzo per pochi centimetri di colonna su una riunione di boy-scout solo per essere sicuro di fare una cosa così perfetta che il direttore non si azzarderà a respingerla.

Ma dopo un mese ero entrato nel giro, e dopo tre mesi sapevo di sbrigarmela bene e di guadagnarmi il mio stipendio. Non che Hetherton me lo dicesse. Ma lavoravo in fretta e bene come lui, e le correzioni dei miei articoli riguardavano solo particolari di secondaria importanza.

Dopo sei mesi capii fino a qual punto mi ero lasciato giocare, perchè, con ogni probabilità, ero il miglior cronista che Hetherton avesse mai avuto. Ero in grado di fare tutto quello che faceva lui, e meglio, e più in fretta. Per ciò che riguardava la parte editoriale, bene inteso; ignoravo completamente la parte commerciale, che però non mi interessava. Ma il mio scopo era quello di diventare un cronista.

A peggiorare le cose in un senso e a migliorarle in un altro contribuì la conoscenza — che feci a quell’epoca — di Tom Acres, il direttore del quotidiano di Bisbee; e la nostra conoscenza non tardò a trasformarsi in qualcosa di simile all’amicizia. Si era fermato un giorno al Sun, senza un motivo particolare; passava da Mayville per raggiungere Tucson, e per caso Hetherton era fuori in cerca di pubblicità. Tom ed io avevamo parlato qualche volta per telefono, in occasione di scambi di articoli, ma quella volta ci conoscemmo personalmente e chiacchierammo a lungo.

Aveva qualche anno più di me, cioè era abbastanza giovane per essere già il direttore di un quotidiano, sia pure piccolo. Alto, magro e biondo, parlava con una punta di accento del Texas; seppi più tardi che era nato e cresciuto nel Texas, ma che lo aveva lasciato da quando aveva dieci anni.

Mi chiese se capitavo mai a Bisbee, ed io gli risposi di sì, ma che non avevo mai nemmeno pensato di venirlo a trovare. Mi disse allora di pensarci la prossima volta, e fu così che mi recai da lui, nella mia giornata di riposo, due settimane più tardi. Mi portò a casa sua, dopo avermi fatto visitare gli uffici del giornale, mi presentò sua moglie Marna e mi trattenne a cena.

Nei mesi seguenti andai tre volte a Bisbee, e le prime due volte Tom e Marna insistettero per avermi a casa, ma la terza volta fui io ad insistere perchè uscissero con me, giurando che, se non avessero accettato, non avrei mai più mangiato con loro. Finii per spuntarla.