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Cass è tanto indipendente quanto cordiale. Lo avevo imparato una sera, quando ero a Mayville da una settimana o poco più. Si era dato il caso che alle sette fossi il solo cliente del bar. Egli stava cantando, ma improvvisamente aveva detto: «Oh, al diavolo! Che ne direste di una corsa in macchina con me fino a oltre il confine, Bob? Preferisco pagarvi da bere piuttosto che versarvelo.»

«Parlate sul serio?» avevo chiesto. «Più tardi arriveranno altri clienti.»

«Certo che parlo sul serio. I clienti se ne possono andare da qualche altra parte.»

Non mi ero lasciato scappare l’occasione, perchè mi piaceva la sua compagnia e perchè non ero mai stato oltre il confine e desideravo di andarci.

Cass era in vena di parlare quella sera. Dopo un poco avevo incominciato a sospettare che mi avesse portato fuori dal suo bar per potersi sfogare con me senza correre il rischio di essere interrotto dall’ingresso di qualche altro cliente. Ma non me ne importava: quello che aveva da raccontarmi di sé era così interessante che mi andava l’idea di lasciarlo sfogare.

Aveva imparato a cantare, immaginate un po’, in una fattoria della Florida. A venticinque anni, aveva accettato il posto con l’intenzione di fermarsi solo pochi mesi, ma il lavoro e la compagnia gli erano piaciuti tanto che era rimasto per sette anni.

La fattoria era di proprietà di un certo Luigi Vitelli, un ex cantante d’opera che qualche anno prima l’aveva comperata per ritirarcisi a vivere. Aveva cantato per nove anni al Metropolitan, sempre in ruoli secondari, mai come protagonista, perchè la sua voce non glielo avrebbe permesso. Ma conosceva ogni nota di quasi tutte le opere e aveva un numero incalcolabile di spartiti. La moglie di Vitelli, Elsa, una tedesca, non aveva mai cantato sul palcoscenico, ma aveva una discreta voce da contralto ed era in grado di suonare il piano leggendo a prima vista.

«Soltanto noi tre abitavamo là, e tutte le sere c’era riunione musicale. Fin dalla prima sera Vitelli si accorse che avevo una bella voce naturale e un buon orecchio, la prima è inutile senza il secondo, e viceversa, e cominciò a darmi lezioni. Era una cosa che mi piaceva. E anche i Vitelli mi erano simpatici; dopo meno di un anno, ero diventato per loro qualcosa di simile a un figlio. E assieme alla musica mi insegnavano le lingue, quelle in cui vengono cantate quasi tutte le opere. Ci accorgemmo che per queste avevo una certa qual attitudine naturale.

«E durante questi sette anni Vitelli migliorò persino il mio inglese. Non che fosse malvagio; avevo frequentato la scuola media superiore. Ma il suo inglese era perfetto, ed egli correggeva con lo stesso entusiasmo ogni mio errore di pronuncia e ogni mia nota sbagliata.

«Credo che quei sette anni siano stati i migliori della mia vita. Ma nulla dura in eterno. Vitelli morì. Elsa vendette la fattoria, ed io rimasi con lei fino all’ultimo giorno. Quando tornò a New York, voleva che la accompagnassi. Ma io avevo sempre desiderato di andare nell’Ovest, e mi parve che fosse il momento più indicato per farlo.

«Avevo da parte qualcosa. Non guadagnavo molto alla fattoria, ma nemmeno spendevo molto, e così ero riuscito ad accantonare più di un migliaio di dollari. Dovevo decidermi. Mi sarebbe piaciuto cantare. Non nell’opera. Malgrado le lezioni di Vitelli, sapevo che non sarei mai riuscito a tanto, e poi avevo trentadue anni, ed è troppo tardi per tentare una carriera drammatica se non si è già avuto modo precedentemente di esibirsi in pubblico.

«Pensai che forse sarei riuscito a cavarmela in un locale notturno o in una piccola orchestra. Non che il jazz, la musica popolare o le ballate mi interessassero particolarmente, ma sapevo di essere in grado di sbrigarmela. Se si canta musica operistica si può cantare qualsiasi cosa. Così presi un treno e partii per San Francisco.

«Il mio primo posto fu di cameriere-cantante in un locale che cercava di imitare il Bowery in tutto fuorché nei prezzi. Erano di prammatica le vecchie canzoni. E ottenni un grande successo. In confronto agli altri miei colleghi, sembravo Caruso che cantasse con ragazzi alle prime armi. Avevo una voce migliore allora, più piena. Cominciai a ricevere offerte e ad accettarle. In genere si trattava di posti in locali notturni. A costo di rimetterci, sceglievo sempre quelle sale dove l’orchestra non era troppo rumorosa o jazzistica. Il mio cavallo di battaglia erano i pezzi già vecchi, come Night and Day per esempio. Potevo riempire una sala con una canzone del genere, e i clienti smettevano di chiacchierare e ascoltavano.

«Lavorai a San Francisco per cinque anni. Poi, per un poco, a Las Vegas. Poi fu la volta di Los Angeles. Me la cavavo bene. Non sfondavo nel vero senso della parola, non guadagnavo cifre favolose, ma era raro che dovessi aspettare molto fra una scrittura e l’altra.»

Ma poi, improvvisamente, era successo qualcosa. Lo aveva colpito una malattia alla gola. Da principio avevano pensato a un cancro alla laringe, e in questo caso sarebbe stato spacciato. Era risultato invece che si trattava di una escrescenza benigna, ma avevano dovuto operarlo per asportarla. E questo significava che non doveva più cantare per un poco. Forse per sempre. E l’operazione, più il periodo di inattività precedente e seguente, avevano intaccato in maniera preoccupante i suoi risparmi.

Appena aveva avuto di nuovo voce sufficiente per parlare, era andato a Las Vegas a cercare lavoro. Aveva trovato un posto di croupier in una sala da gioco e lo aveva tenuto per cinque anni. Intanto la voce gli era tornata, ma non era più quella di prima, ed egli aveva deciso di considerare chiusa la sua carriera di cantante professionista. Aveva ormai quarantacinque anni, e stava diventando un po’ troppo vecchio per esibirsi nei locali notturni.

«Ero a questo punto, quattro anni fa, quando ho conosciuto a Las Vegas un tale di Mayville che era venuto là in vacanza e che mi ha detto di essere disposto a vendere il bar di cui era proprietario. Avevo il denaro appena sufficiente per assicurarmelo, sto ancora finendo di pagare la licenza. Sapete quanto costa una licenza in questo Stato? Una vera licenza per bar, non quella per vino e birra soltanto?»

Avevo risposto: «Se non mi sbaglio costa piuttosto cara, fino a trentamila dollari e più nelle grandi città.»

«Precisamente. E non molto di meno in quelle piccole. Bisogna lavorare quasi cinque anni senza utili solo per pagare quella dannata licenza. Comincio solo ora a essere in attivo. E lavoro duro, salvo una volta ogni tanto, come stasera.»

Avevo chiesto: «Non renderebbe avere un barista e aprire più presto? Voi, potreste venire solo alle cinque o alle sei.»

«Ho provato quando ho aperto. Avevo un barista che veniva alle nove e si fermava fino alle cinque. Ma mi sono accorto che arrivavo anch’io quasi sempre nelle primissime ore del pomeriggio, e, a conti fatti, il lavoro della mattina e del mezzogiorno non bastava neppure a coprire il suo stipendio. E così da allora me la sono sbrigata da solo.»

«Ma non perdete clienti… clienti locali, bene inteso… se non si può mai essere sicuri che sarete aperto a una data ora?»

«Sono aperto nove volte su dieci, e la media mi sembra più che sufficiente. Se sono affezionati al mio locale, ci torneranno anche se trovano chiuso una volta ogni tanto. In caso contrario, che vadano all’inferno. Guadagno abbastanza da vivere anche così. E poi, quando il mio locale è aperto, ci devo essere io dietro al banco, non qualcun altro.»

Avevo capito il suo punto di vista ed avevo rinunciato a discutere.

Così, non potevo essere sicuro che il bar di Cass fosse aperto alla una, ma potevo essere sicuro che non sarebbe stato aperto prima. Non si faceva mai vedere prima della una.