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Uscì, ed io tornai a voltarmi verso la macchina, concentrandomi su quello che stavo per scrivere. O che avrei cercato di scrivere.

Ma invece pensai a Doris. Avevo l’abitudine di telefonarle sempre nel mio giorno di libertà, e invece quel giorno non l’avevo chiamata.

Venne all’apparecchio prima la padrona di casa e poi Doris. «Ciao, Bob. Pensavo che non mi avresti chiamata. Ho un minuto soltanto, devo fare qualcosa prima di cominciare a lavorare, e sto per uscire.»

«Non ti farò perdere tempo. Volevo soltanto dirti una cosa.»

«Che cosa?»

«Ti amo. Sono pazzo di te, cara.»

Rise. «Se questa è una novità, sono contenta che tu mi abbia chiamato. Anch’io ti amo. E adesso devo scappare. Arrivederci.»

Riattaccai il ricevitore, e un rumore che sembrava il grugnito di un bufalo mi fece alzare la testa.

Ferma davanti alla mia scrivania, la signora Hetherton mi stava guardando con espressione indignata. La porta dell’ufficio del Sun non fa il minimo rumore, e non l’avevo sentita entrare.

13

Mi affrettai ad alzarmi.

Vi ho già descritto la signora Hetherton? Credo di non averlo ancora fatto. Ma non ci avete perduto niente. È piccola, e perdonatemi il luogo comune se dico che è secca come un chiodo ed ha la faccia di chi ha bevuto aceto. E una voce che ricorda il rumore di un cardine arrugginito. Contrariamente a Hetherton, veste malissimo. Può darsi che sia più vecchia del marito e può darsi che no, ma certo ha l’aria di avere almeno cinque anni più di lui. E andare d’accordo con lei è ancora più difficile che non andare d’accordo con lui, il che vuol dire molto. Fortunatamente, capita in ufficio non più di una volta al mese, e si ferma al massimo qualche minuto. Ma anche così è già troppo.

«Giovanotto,» mi domandò, «stavate per caso facendo una telefonata personale nel tempo che dovreste dedicare a mio marito?»

Risposi, conciliante: «Era una chiamata personale, signora Hetherton, ma oggi non devo dedicare tempo a vostro marito. È la mia giornata di libertà. Mi ha pregato di fermarmi per un poco, per fargli un piacere. Stavo aspettando voi.»

«State aspettando me? E dov’è il signor Hetherton?»

«Ha dovuto uscire per affari. Ha detto che dovevate venire qui a ritirare un poco di denaro, e mi ha chiesto di darvi quello della piccola cassa. Di quanto avete bisogno?»

«Avrebbe anche potuto aspettarmi. Humpf! Va bene, comunque: venti dollari mi saranno sufficienti.»

Presi la scatola della piccola cassa dalla cassaforte e le diedi venti dollari. Né mi ringraziò né mi salutò. Uscì senza una parola, mentre rimettevo a posto la scatola.

Stavo per girare la manopola della combinazione quando ricordai di aver dimenticato il biglietto. Tornai alla scrivania, scrissi su un foglio: «Dati alla signora Hetherton venti dollari. R. S.», poi misi il foglio nella scatola. E allora, con l’anta della cassaforte aperta e con la certezza che Hetherton, uscito da dieci minuti soltanto, non sarebbe rientrato prima di altri cinque almeno, provai improvvisamente la tentazione di curiosare dentro. Se era una cosa che faceva Birdie, perchè non avrei dovuto farla io? E la mia curiosità era più giustificata della sua.

Volevo sapere quanto guadagnava Hetherton; era una cosa che continuavo a chiedermi da più di un anno.

Non c’era gran che là dentro, oltre la scatola della piccola cassa ed i mastri, nonché i due libri della prima nota, uno per il giornale e l’altro per la tipografia, che Alicia Howell teneva aggiornati. Era tutta roba che non mi interessava. Ma su uno scaffale separato c’era un libro più piccolo; sapevo di che cosa si trattava, ma non ero mai riuscito a sfogliarlo. Hetherton lasciava che la signorina Howell sbrigasse il normale lavoro di contabilità, ma badava personalmente al bilancio mensile che trascriveva su quel libro. Non mi sarebbe servito a niente di sfogliarlo e di vedere quanto guadagnava Hetherton, ma ero curioso, e, quando avessi saputo, avrei saputo anche se odiarlo più o meno per il. miserabile stipendio che mi pagava.

Non avrei rischiato nulla a dare un’occhiata. L’anta della cassaforte era fra me e l’ingresso, e, se avessi letto a quel riparo, senza perdere d’occhio la porta, avrei potuto rimettere tutto a posto in fretta, ed egli avrebbe immaginato che stavo chiudendo via la scatola della piccola cassa.

Presi il libro e l’aprii. Il mese precedente, aprile, dava un utile superiore ai mille e trecento dollari. Lordo o netto? Diedi una scorsa alle varie voci e vidi che comprendevano tutto, persino la svalutazione dell’edificio; i mille e trecento dollari rappresentavano così un utile netto.

Dopo una rapida occhiata alla porta, sfogliai in fretta le pagine che riguardavano l’anno precedente. Le cifre variavano, naturalmente. Dicembre era il mese più ricco, con un utile di più di duemila e cinquecento dollari, perchè c’erano le pubblicità natalizie e la stagione turistica era in pieno svolgimento. Ma, anche per i mesi peggiori, le cifre erano sempre di quattro numeri. A un calcolo approssimativo, Hetherton doveva guadagnare, netti, circa ventimila dollari l’anno.

Più o meno il doppio di quello che avevo immaginato. Conoscevo la sua casa, dall’esterno, e la sua macchina; certo non avrei mai supposto, dal suo tenore di vita, che superasse i diecimila dollari all’anno, anzi sarei stato pronto a giurare che il suo reddito era inferiore. A meno che non avesse qualche vizio segreto molto costoso, o che non sovvenzionasse molto generosamente in segreto istituzioni di carità — ma non riuscivo a vedere Hetherton né sotto un aspetto né sotto l’altro — viveva con meno della metà di quello che guadagnava e metteva da parte, come minimo, diecimila dollari all’anno. E, sotto questo punto di vista, lo stipendio da fame che pagava a me e agli altri appariva meno che mai giustificato.

Mi bastava guardare il bilancio dell’ultimo anno, cioè da quando lavoravo per lui; chiusi il libro e lo rimisi sul ripiano della cassaforte. E, mentre facevo così, vidi che sul ripiano c’era una semplice busta bianca, che prima il libro mi aveva nascosto.

Non so che cosa mi fece pensare che in quella busta potesse esserci qualcosa di interessante, ma fu tale la sensazione che provai. Doveva essere importante, se Hetherton la teneva in cassaforte, e sotto il libro dei profitti e perdite che lui solo poteva maneggiare.

Diedi un’altra occhiata alla porta e decisi di correre il rischio. La busta era rovesciata, e così avevo notato che non era chiusa. La presi e l’aprii. Dentro, c’era un foglio ripiegato tre volte. Lo presi, e sbarrai gli occhi, sbalordito, perchè quello che vedevo non aveva per me significato alcuno.

Era un avviso della polizia che una volta doveva essere stato esposto in un ufficio postale o simili, perchè ai quattro angoli c’erano i fori delle puntine da disegno.

Recava la fotografia di un giovane che mi riusciva assolutamente sconosciuto. O meglio, le foto erano due: una di faccia e una di profilo. Dovevano essere state scattate in prigione perchè, in quella di faccia, lo sconosciuto portava attaccato al collo un numero. Era un bel giovane, malgrado l’espressione chiusa del viso, ma credo che chiunque si trovi chiuso in prigione abbia una espressione piuttosto chiusa.

Sotto, c’erano la serie delle impronte digitali e la didascalia: «Ricercato per rapina a mano armata».

Fra le fotografie e le impronte c’erano nome e descrizione: James Norcutt, un metro e ottantasette, settantotto chili, capelli neri, occhi azzurri… Non ricordo il resto della descrizione, perchè non cercai nemmeno di fissarmela nella memoria.

Sotto la descrizione, si invitava chiunque fosse in grado di dare informazioni su James Norcutt a rivolgersi al capo della polizia di Hoboken, New Jersey. E c’era una data, che risaliva a quasi venticinque anni prima. E la carta, come avevo già notato, cominciava a ingiallire, segno evidente di una certa quale anzianità.