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Jackson tornò verso Donovan, cominciando a indossare un paio di guanti di gomma. Nello strisciare contro la ferita alla mano, celò una smorfia di dolore.

— Questo è tutto, signor Donovan. Ma si consoli, quando avrò finito con lei, farò visita a LuAnn Tyler.

Perché cazzo non ti ho dato retta, LuAnn?, pensò Donovan.

Le mani di Jackson si avvicinarono ai lati della faccia di Donovan come tentacoli.

— Non ce la farai contro di lei, pezzo di merda! Ti taglierà i coglioni con un trinciapolli!… — Donovan cercò istintivamente di ritrarsi. Ma era troppo debole, esausto.

— Grazie per avermi fornito la sua opinione, signor Donovan. — Con un gesto brusco, Jackson afferrò la testa dell’uomo torcendogliela violentemente. Le vertebre del collo di Donovan si spezzarono come bacchette di vetro colpite da una martellata.

Trasportato il cadavere in garage, Jackson fece toccare alle dita di Donovan le maniglie, il volante e il cruscotto della Mercedes, e infine l’impugnatura della pistola con la quale Bobbie Jo Reynolds era stata assassinata a sangue freddo. Quindi caricò il corpo sulla Mercedes, tornò in casa e raccolse la valigetta e il registratore di Donovan. In pochi minuti, lasciò la villa alla guida dell’auto.

Il cadavere di Thomas Donovan viaggiò a lungo nel baule della Kompressor. L’unica breve sosta ebbe luogo sul ciglio di una elegante strada di McLean, dove Jackson lanciò l’arma in mezzo a degli arbusti. Più tardi, al calar della notte, il cadavere di Thomas Donovan avrebbe trovato la sua estrema dimora in un inceneritore di rifiuti.

Mentre guidava, Jackson pensò brevemente a come avrebbe affrontato LuAnn Tyler e il suo nuovo alleato, Riggs. Il tradimento di lei era più che provato, e non ci sarebbero state ulteriori dilazioni. Ma prima di concentrarsi su quell’obiettivo, c’era qualcos’altro di cui doveva occuparsi.

Jackson entrò nell’appartamento di Donovan, chiuse la porta e si guardò intorno. Anche se la sua faccia continuava a essere quella del giornalista, e nessuno avrebbe trovato nulla da ridire nel vedere Donovan che tornava a casa, Jackson sapeva di dover fare in fretta. Non ci sarebbe voluto molto perché il corpo di Bobbie Jo Reynolds venisse scoperto. Ancora meno perché avesse inizio la caccia al suo assassino, Thomas Donovan, poi misteriosamente dissoltosi nell’aria.

Gli scatoloni con gli archivi delle ricerche di Donovan, i medesimi che erano stati nel villino tra i boschi di Charlottesville, erano stati stipati in un ripostiglio. Jackson rovesciò l’intera documentazione in una grossa borsa di nylon nero che lasciò sul pavimento dell’anticamera. Il passo successivo fu esplorare il computer. Niente password. Niente posta elettronica. Niente Internet. Sul disco fisso, Jackson non trovò nulla. Thomas Donovan doveva proprio essere stato un tradizionalista della carta stampata. Jackson comunque scaricò nella borsa anche tutti i dischetti che trovò sparsi sugli scaffali e nei cassetti. Li avrebbe esaminati con calma in seguito. Si stava avviando alla porta, quando notò la spia intermittente della segreteria telefonica. Premette il tasto d’ascolto.

I primi tre messaggi erano insignificanti, il quarto lo fece sobbalzare. Abbassò il capo verso l’apparecchio, cercando di catturare ogni parola.

Alicia Grane aveva un tono nervoso, spaventato. “Thomas, dove sei? Ho un brutto presentimento in merito a questa storia sulla quale stai lavorando… Veramente brutto… Chiamami, ti prego. A qualsiasi ora del giorno o della notte.”

Jackson restò immobile nell’anticamera immersa nell’oscurità, a fissare l’apparecchio. Quindi riavvolse il nastro e lo riascoltò. Infine trasportò gli scatoloni in macchina e lasciò l’appartamento.

49

LuAnn lanciò un’occhiata alla struttura bianca del Lincoln Memoria] mentre passavano con la Honda sul Memorial Bridge, strangolato dal traffico dell’ora di punta del mattino. Sotto, il Potomac scorreva plumbeo e leggermente increspato. Avevano passato la prima notte di fuga in un motel vicino a Fredericksburg, cercando di decidere le loro prossime mosse. Si erano poi spostati nella zona di Washington e avevano trascorso la seconda notte in un altro motel, ad Arlington. Riggs aveva fatto alcune telefonate e visitato certi negozi specializzati. Più tardi, erano rimasti chiusi nella loro stanza con le tende tirate, imprimendosi bene in mente i dettagli della loro strategia. Durante la notte avevano fatto turni di guardia, come in attesa di una nuova ondata di pericolo. Se la situazione fosse stata diversa, avrebbero di sicuro fatto l’amore nuovamente. Ma la situazione non era diversa.

LuAnn rilasciò la nuca contro il poggiatesta del sedile: — Non riesco a credere a quello che sto per fare.

— Hai detto di fidarti di me.

— E infatti mi fido.

— LuAnn, ci sono due cose che conosco bene — disse Riggs sbuffando — il mio mestiere di costruttore e il funzionamento dell’Fbi. Non esiste altra possibilità all’infuori di questa. Tu prova a dartela a gambe, e vedrai quanta strada riuscirai a fare.

— Me la sono già data a gambe una volta — ribatté LuAnn con aria di superiorità.

— Allora diciamo che la prima volta avevi dalla tua un bel po’ di vantaggio e un bel po’ di aiuto. Ora il Bureau sa chi è Catherine Savage, ed è già arrivato a un passo dal prenderti. Perciò, se non puoi scappare, fa’ il contrario. Vagli addosso, prendi l’iniziativa.

LuAnn serrò le mani sul volante e ripensò intensamente a quanto stavano per fare. L’unico altro uomo del quale si era fidata era stato Charlie. E anche nel suo caso, c’era voluto tempo: dieci anni. Solo che questa volta Charlie non c’era. Doveva fidarsi di qualcun altro, di un uomo che conosceva solamente da pochi giorni. Ma che per lei aveva ripetutamente rischiato la pelle.

— Non sei nemmeno nervoso? — gli chiese.

— Chi, io? — Riggs sorrise. — Correre sul filo del rasoio, che cosa c’è di meglio?

— Tu sei pazzo, Matthew Riggs, davvero. Io cerco solo un po’ di tranquillità e di normalità, e tu sbavi per poter rischiare l’osso del collo.

— Dipende tutto dal punto di vista… Eccoci qua. — Riggs le indicò un posto libero per parcheggiare. — Si va a incominciare. — Aprì la portiera. — Ricordi tutto?

— Non c’è problema.

Riggs gettò un’occhiata obliqua all’imponente edificio grigio alle sue spalle e scese dalla Honda. — A presto.

LuAnn lo osservò raggiungere un telefono pubblico sul marciapiede e comporre un numero. Poi si infilò un paio di occhiali scuri, innestò la marcia e partì lasciandosi alle spalle l’Hoover Building, quartier generale dell’Fbi.

Dopo la telefonata, Riggs era entrato nell’edificio, dove due guardie armate lo avevano scortato a destinazione.

La sala riunioni in cui ora si trovava era vuota, ampia e spartana. Riggs respirò a fondo e rimase in attesa. Il suo sguardo scrutò gli angoli del soffitto e seguì i profili squadrati degli arredi: non si vedevano né telecamere a circuito chiuso, né microfoni. Il che non significava assolutamente nulla. Quel locale doveva essere comunque sotto sorveglianza video e audio.

Riggs si girò al rumore della porta che si apriva. George Masters e Lou Berman sembravano due copie conformi uno dell’altro: stesse camicie bianche di poliestere, stesse cravatte finto Regimental, stessa maschera di cordialità.

— È passato un bel po’ di tempo — esordì Masters tendendogli la mano. — Lieto di rivederti, Dan.

— Dan è morto. — Riggs accettò la stretta. — Il mio nome è Matt.