Duane Harvey era a casa. Stava seduto sullo sbrindellato divanetto del soggiorno. Sul tavolino accanto a lui c’era un secchiello di cartone del Kentucky Fried Chicken. Bisunti pezzi di pollo mangiati a metà, patatine fritte rovesciate, chiazze di ketchup sparse come sangue troppo denso, lattine di birra vuote e accartocciate. Resti della cena di ieri, oppure della colazione di oggi. La malridotta televisione era accesa. Niente suono, soltanto immagini baluginanti.
— Ehi, Duane, sei sordo?
Lui girò la testa verso di lei. Un movimento di una lentezza surreale, da ubriaco.
— Tu proprio non vuoi crescere, eh, Duane? — LuAnn era inferocita. — Dobbiamo fare un bel discorsetto, io e te. E a te non piacerà. Ma vuoi saperne una? Non me ne frega niente se non ti pia…
La mano venne fuori dal nulla, coprendole la bocca fin quasi a soffocarla. Un braccio spesso come una trave le strinse la vita, immobilizzandole le braccia lungo i fianchi. Vanamente i suoi occhi dilatati passarono da un angolo all’altro del minuscolo ambiente.
Duane Harvey non era ubriaco. Duane Harvey era morto. Il petto della sua camicia era fradicio di sangue. Sangue vero, non ketchup. Il suo corpo crollò in avanti, come un pupazzo di stracci abbattuto dal vento.
La mano passò dalla bocca di LuAnn alla gola. La morsa spinse il mento verso l’alto, la brutale pressione le fece scricchiolare le vertebre cervicali.
— Un vero peccato, mia cara…
Una voce roca, che LuAnn non riconobbe. E insieme alla voce, le arrivò un alito pesante, fetido, saturo di un tanfo misto di pollo fritto del Kentucky e birra dozzinale. Un alito rivoltante che le premeva contro il volto.
— Cara signora, sei nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.
LuAnn vide l’altra mano. E vide la lama del coltello che si sollevava verso di lei. Verso la sua gola. Fu quello l’errore del suo assalitore. Nell’alzare il coltello le aveva lasciato entrambe le braccia libere. Forse aveva creduto che fosse rimasta paralizzata dal terrore. Tutt’altro. LuAnn scalciò all’indietro, colpendo con il tallone il ginocchio di lui come lo zoccolo di un mulo. Simultaneamente pestò a fondo con il gomito nel suo ventre flaccido, all’altezza del diaframma.
L’uomo sussultò, la lama che s’impennava tagliandole il mento in diagonale. Un fiotto rosso si disperse nell’aria ferma della Airstream. LuAnn sentì in bocca il gusto del sangue, il proprio sangue. L’uomo cadde in ginocchio sul pavimento, sputando e gorgogliando. Il grosso coltello da caccia cadde sulla moquette, intrisa di altro sangue, quello di Duane Harvey.
LuAnn partì in fuga verso la porta della roulotte, ma la mano sinistra del killer si chiuse in una morsa intorno alla caviglia di lei, trascinandola a terra. LuAnn rotolò sulla schiena, riuscendo ad assestargli un calcio in piena faccia. Per la prima volta riusciva a vederla: carnagione bianchiccia scottata dal sole, sopracciglia cespugliose unite al centro, capelli zeppi di brillantina da quattro soldi, labbra ora distorte in una smorfia di dolore grottesca. LuAnn non poté vedere i suoi occhi, semichiusi mentre incassava la pedata. Era invece del tutto evidente che si trattava di un gorilla grosso almeno il doppio di lei. Dalla stretta che lui continuava a esercitare sulla sua caviglia, ebbe la conferma che sul piano della forza fisica non ci poteva essere confronto. Ma LuAnn non avrebbe lasciato sua figlia a portata di quell’energumeno. A nessun costo!
Invece di seguitare a resistere passivamente, gli si scaraventò addosso urlando a squarciagola. E questo lo disorientò. Di colpo sbilanciato, l’uomo abbandonò la presa alla caviglia. In quel frangente LuAnn scorse i suoi occhi: due biglie marrone scuro, il colore delle vecchie monete da un centesimo. Quegli occhi non le piacevano. E con uno scatto felino gli piantò indice e medio della mano destra direttamente dentro i bulbi. L’uomo urlò come un maiale sgozzato. Sotto la scossa nervosa del lancinante dolore, schizzò all’indietro, picchiò la schiena contro la parete e le ritornò addosso alla cieca.
Rotolarono entrambi sul divano, in un sussultante groviglio di gambe e di braccia. Nella caduta, la mano di LuAnn agguantò un oggetto, impossibile capire cosa. Le parve qualcosa di ragionevolmente pesante. E di molto duro. Senza pensarci due volte pestò l’oggetto sul cranio del killer, sfiorando nel movimento il cadavere di Duane mentre per inerzia andava a sbattere a sua volta contro la parete.
Nel centrare la tempia dell’assalitore, il telefono si disintegrò in mille pezzi. L’uomo crollò di nuovo. Le sue gambe ebbero un sussulto spastico. Sangue scintillante gorgogliò tra i capelli zeppi di brillantina e colò sul pavimento, mescolandosi al ketchup. E all’altro sangue, quello di Duane Harvey.
LuAnn rimase immobile a terra per un attimo, poi in qualche modo riuscì a mettersi a sedere. Tutta la schiena le doleva. Aveva un braccio indolenzito nel punto in cui, cadendo, aveva urtato contro il tavolino, e ben presto le si intorpidì fino a diventare insensibile, inutile. Un Boeing 747 continuava a decollarle dentro il cranio.
— Cristiddio…
Lottò per sollevarsi e per mantenere l’equilibrio. Doveva andarsene da lì. Prendere Lisa e correre finché le sue gambe l’avessero sostenuta. Le ombre apparvero ai margini del suo campo visivo, simili alle ali di quegli uccelli neri che aveva visto prendere il volo dagli alberi intorno alla radura.
— Gesù…
Le ombre invasero l’intero universo. LuAnn Tyler crollò su se stessa come un castello di carte.
8
LuAnn non aveva idea di quanto tempo fosse rimasta svenuta. Il sangue scaturito dalla ferita al mento non si era ancora seccato, così dedusse che il mancamento non poteva essere stato troppo lungo.
Aveva la maglietta tutta strappata, intrisa di altro sangue, un seno fuoriuscito dallo squarcio nella stoffa. Lentamente, si rimise in posizione seduta, cercando di ricomporsi con l’unico braccio funzionante. Si passò la mano sul mento e le sue dita incontrarono il taglio dai bordi slabbrati. In qualche modo riuscì a sollevarsi. Aveva il fiato mozzo. Ondate di terrore e di dolore fisico continuavano a martellarla come marosi in una tempesta.
I due uomini giacevano uno accanto all’altro. L’uomo che aveva tentato di ucciderla era ancora vivo. Lo indicava il ritmico abbassarsi e sollevarsi del suo ventre a mongolfiera. Per Duane era difficile dirlo. LuAnn si mise in ginocchio e cercò di sentirgli il polso. Se anche c’era un battito, non le riuscì di trovarlo. La faccia di Duane aveva assunto una sfumatura grigiastra, accentuata dalla penombra che dominava all’interno della roulotte. LuAnn si alzò e girò l’interruttore. Non servì, la luce rimase scarsa. Tornò a inginocchiarsi accanto a Duane, cercò una pulsazione sul suo torace. Niente. Gli sollevò la camicia ma la riabbassò di scatto. Sangue.
— Santo Dio, Duane… Che cosa hai combinato? Duane? Puoi sentirmi? Rispondi!…
Nel chiarore livido e quasi lunare della Airstream, poté accertare che il sangue aveva smesso di sgorgare dal corpo ferito di Duane, segno probabile che il suo cuore aveva cessato di battere. LuAnn gli toccò un braccio. La carne del gomito era ancora calda, ma quella della mano era fredda, e le dita stavano già incurvandosi, simili ad artigli. Il suo sguardo si spostò sui resti del telefono. Non sarebbe venuta nessuna ambulanza. E comunque, a Duane non sarebbe servita. Bisognava chiamare la polizia. Identificare l’uomo che aveva fatto fuori Duane e che aveva cercato di uccidere anche lei.
Quando LuAnn si alzò per andarsene, s’inchiodò di nuovo. Polvere. Polvere bianca all’interno di piccole buste di plastica trasparente. Erano nascoste dietro il secchiello bisunto del Kentucky Fried Chicken. Nella lotta erano finite sparse per terra. LuAnn si chinò a raccoglierne una. Capì all’istante di che cosa si trattava. Droga…