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E così il sistema stava per rimettersi di nuovo in movimento. Ogni volta gli equilibri erano leggermente diversi, ma era proprio questo l’aspetto stimolante: la mancanza di certezza. Jackson consultò l’orologio da polso. Il tempo della preda si stava avvicinando. Contava che il loro incontro sarebbe stato produttivo per entrambi.

Jackson aveva un’unica domanda da porre a LuAnn Tyler, una semplice domanda dalla quale sarebbe però scaturita una reazione a catena di estrema complessità. Sulla base della propria esperienza, egli era ragionevolmente certo di conoscere già la risposta, ma la mancanza di certezza aleggiava, eccitandolo. Si augurò per la sua preda che la risposta fosse quella giusta. E c’era un’unica risposta giusta. Altrimenti, be’, quella bambina non avrebbe avuto l’opportunità di conoscere sua madre, perché sarebbe cresciuta orfana.

La palma della mano di Jackson batté sul piano di legno con un colpo simile a uno sparo. Certo che avrebbe risposto di sì! Prima di lei, tutte le altre prede l’avevano fatto. Jackson scosse violentemente il capo. No, nemmeno questa sarebbe stata diversa dalle altre. Lui le avrebbe fatto vedere, capire la logica ineluttabile del suo sistema. Le avrebbe mostrato come quella logica avrebbe cambiato tutto. Ben oltre quanto lei stessa avrebbe mai potuto immaginare. La sua era la classica offerta-che-non-si-può-rifiutare.

Però lei doveva arrivare.

Jackson si passò sul mento il dorso della mano, aspirò profondamente dalla sigaretta e osservò un solitario chiodo che sporgeva dal muro, simile a un insetto spiaccicato.

Lei doveva accettare. Era la preda.

E lui il predatore.

2

Il vento freddo, ostile, prendeva d’infilata la stretta strada sterrata, facendo frusciare gli alberi scuri su entrambi i lati. Dopo aver curvato improvvisamente verso nord, la strada scendeva a est in modo altrettanto brusco. Altri alberi si addensavano sulla sommità del dosso, alcuni ridotti a sculture deformi dagli elementi e dalle malattie. Eppure, per la maggior parte si ostinavano a restare eretti come totem dalle poderose radici e dalle folte chiome. C’era una specie di radura in fondo alla discesa: un semicerchio di terreno fangoso disseminato da frastagliate zone erbose.

Poteva essere un’immagine in qualche modo arcadica, ma mucchi di spazzatura, una montagnola di lattine vuote di birra scolorite dalle intemperie, blocchi di motore arrugginiti e relitti di mobilia varia intristivano lo scenario con il più efficace degli effetti. E poi tanti altri residui, detriti e rottami irriconoscibili che d’inverno, sepolti sotto la neve, apparivano come strane gibbosità generate da chissà quale arte figurativa priva di contorni definiti. D’estate, martellati dal sole incandescente, diventavano ricettacoli per roditori, rettili e insetti.

La solitaria roulotte giaceva al centro della radura, assediata da tutti quei rifiuti. Era una vecchia Airstream d’alluminio sbiadito, fessurato. Paralizzata crisalide metallica priva di ruote, con i mozzi direttamente appoggiati su pile di mattoni di cemento in progressiva disgregazione. Uniche connessioni con il mondo esterno, il cavo elettrico e quello telefonico, diramati dal filare di pali di legno annerito che correva lungo la strada sterrata. La roulotte pareva una piaga rimasta aperta là, nel mezzo del nulla.

E i suoi occupanti sapevano tutto quello che c’era da sapere sul nulla.

All’interno della roulotte, LuAnn Tyler incontrò la propria immagine riflessa nel piccolo specchio appoggiato obliquo sul ripiano della cassettiera. Per riuscirci, era costretta a inclinare goffamente la testa perché la malconcia cassettiera era zoppa, e lo specchio incrinato. Irregolari linee di frattura ne solcavano la superficie, simili a zampe di ragno. Se in quell’avanzo di specchio LuAnn Tyler avesse guardato dritto, avrebbe visto tre immagini di sé, tutte e tre deviate e incomplete.

Non sorrise. Nemmeno riuscì a ricordare se mai fosse esistita una circostanza nella quale aveva sorriso esaminando ciò che appariva nello specchio. Eppure era l’unica risorsa su cui poteva contare, come le era stata inculcato fino dall’infanzia, per quanto indietro riuscisse ad andare con la memoria. Certo, ai suoi denti non avrebbe nociuto qualche lavoretto di restauro, ma questo era il prezzo da pagare per una certa trascuratezza e per non aver mai messo piede in uno studio dentistico.

In fondo, c’è sempre un prezzo da pagare per qualsiasi cosa.

Specialmente per la mancanza di cervello. Benjamin Benny Tyler, suo padre, aveva sempre battuto su quel chiodo. Ma era poi l’intelligenza a cui lui si riferiva, o l’assenza di opportunità in cui farne uso? LuAnn non aveva mai approfondito la questione. Non aveva importanza. Le brave bambine devono prendere per oro colato tutto quello che dice il loro paparino. Benny aveva tirato le cuoia da oltre cinque anni, per cirrosi epatica. Anche la madre di LuAnn, Joy, se ne era andata da tre anni ormai, e quel paio di annetti dopo la morte del marito erano stati i più felici della sua vita. Una realtà che doveva aver fatto rivoltare Benny Tyler nella tomba.

C’era una vecchia sveglia sulla cassettiera, la sola cosa che a LuAnn rimaneva di sua madre. Era una specie di reliquia di famiglia, passata di generazione in generazione dalla nonna alla madre di LuAnn e infine a LuAnn. Quella sveglia non aveva alcun valore economico. Era qualcosa che si poteva comprare in qualsiasi banco dei pegni per meno di dieci dollari. Il suo valore era puramente sentimentale. Da bambina, LuAnn aveva ascoltato fino a notte fonda il lento e ritmico ticchettio della vecchia sveglia, come una guida che, attraverso l’enorme oceano di tenebre, fedele e rassicurante l’avrebbe salutata al suo risveglio. Crescendo, LuAnn aveva avuto in quella vecchia sveglia uno dei suoi punti di riferimento, uno dei pochi. Ma c’era un aspetto che aveva finito con il prevalere sul resto: quell’orologio costituiva l’ultimo concreto legame con la sua adorata nonna. Con il trascorrere del tempo il bilanciere e il movimento si erano erosi, cosicché la sveglia ora produceva un suono del tutto particolare. Un suono che aveva accompagnato LuAnn in molti, troppi periodi oscuri. Sul letto di morte sua madre le aveva dato la sveglia chiedendole di tenerla da conto, di non permettere che andasse perduta, quasi fosse un diadema di pietre rare da tramandare di generazione in generazione. LuAnn lo aveva fatto. E quando il momento fosse arrivato anche per lei, l’avrebbe passata a sua figlia.

LuAnn raccolse in una crocchia i capelli folti, neri come le piume di un corvo. Ma non andava. Allora li attorcigliò con destrezza in un’unica, spessa treccia. No, nemmeno quella andava. Risolse infine di raggrupparli sulla sommità del capo, fermandoli con una serie di forcine, inclinando il volto da un lato e dall’altro per verificarne l’effetto nello specchio incrinato. Dall’alto del suo metro e settantacinque di statura, fu costretta a piegarsi per potersi osservare.

Il suo sguardo continuava a spostarsi sul piccolo fagotto sistemato sulla sedia accanto. LuAnn sorrise nell’ammirare gli occhi grandi, la bocca incurvata, le gote paffute e accese, i pugnetti contratti. Lisa Marie. Sua figlia. Otto mesi di vita e in piena crescita. Lisa aveva già cominciato ad andarsene in giro gattonando, il corpo che si muoveva seguendo le dinamiche incerte e curiose della primissima infanzia. Ben presto, i primi passi le avrebbero cancellate.

Il sorriso di LuAnn scomparve nel guardarsi intorno. Lisa non avrebbe impiegato molto a esplorare ogni angolo del microcosmo fatiscente che era la Airstream. L’interno era una versione pressoché speculare dell’esterno. LuAnn aveva strenuamente tentato di evitare che accadesse, ma non ce l’aveva fatta. Contro le improvvise e brutali eruzioni dell’uomo in quel momento sbracato sul letto era stata una guerra perduta prima ancora che avesse inizio.