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Accompagnato dal sibilo delle turbine, l’elicottero Bell Ranger atterrò sul prato dove tre berline con targa governativa aspettavano. George Masters fu il primo a scendere, seguito da Lou Berman, altro agente dell’Fbi. Entrambi montarono sul sedile posteriore di una delle auto. Quindi il convoglio in nero si mosse inoltrandosi nel verde paesaggio della Virginia. Evidentemente, qualcuno aveva sottostimato i tempi di reazione di Washington.

Venti minuti dopo, le auto si fermarono nel vialetto d’accesso di fronte alla casa di Matthew Riggs. Uomini in austeri abiti scuri e pistole in pugno sciamarono intorno alla casa, silenziosa e inerte. George Masters andò alla porta d’ingresso e bussò con decisione. Nessuna risposta.

Si voltò verso uno dei suoi uomini. — Procedi. — Il corpulento agente assestò un poderoso calcio alla maniglia e la porta si aprì, schiantandosi contro la parete. Dopo aver passato al setaccio l’intera casa, si ritrovarono tutti nell’ufficio di Riggs. Masters sedette alla scrivania, frugando sistematicamente in ogni cassetto, aprendo ogni dossier, verificando ogni annotazione.

LuAnn Tyler… Eccolo il nome nel centro del mirino. E accanto, un secondo nome: Catherine Savage. Gli occhi di Masters si sollevarono dagli appunti sul foglietto e si rivolsero a Berman.

— LuAnn Tyler che scompare e Catherine Savage che viene fuori dall’uovo di Pasqua. Ecco la spiegazione.

— Possiamo esserne sicuri controllando i voli da New York di dieci anni fa — suggerì Berman.

— Non vale nemmeno la pena di sprecare la telefonata: la Tyler è la Savage, e la Savage è qui. Mettiti in contatto con gli agenti immobiliari locali, soprattutto quelli di fascia alta. Non penso proprio che la nostra principessa sia andata a vivere in un’altra roulotte.

Berman tolse di tasca un telefono cellulare e si mosse per andare a illustrare la situazione agli agenti dell’ufficio di zona che li avevano accompagnati.

Masters girò lo sguardo all’ufficio di Riggs, così confortevole, così ordinato. L’ufficio di qualcuno che aveva un buon lavoro, un’ottima qualità della vita, un futuro verosimilmente privo di nubi. Come diavolo aveva fatto a invischiarsi in quella palude? Masters aveva partecipato all’incontro al vertice alla Casa Bianca con il Presidente, il Direttore del Bureau e il Ministro della Giustizia. Aveva esposto la propria teoria e aveva visto le loro facce farsi sempre più pallide. La Lotteria Nazionale americana era stata truccata. La gente avrebbe pensato che dietro quella sporca faccenda ci fosse il governo stesso. Era inevitabile. Il Presidente era addirittura arrivato a presentarsi in televisione per tessere le lodi di quelle palline numerate. E cosa c’era di male se miliardi di dollari continuavano a scorrere nelle casse statali e solo pochi eletti riuscivano a diventare ricchi?

Ma la lotteria, sostenevano alcuni, aveva un costo non dichiarato. Perché se da un lato c’erano i programmi sociali finanziati con i profitti della vendita dei biglietti, dall’altro lato ne derivavano famiglie disgregate, frenesia del gioco, morti di fame che diventavano ancora più morti di fame, gente che si dannava l’anima e il cervello seguendo impossibili sogni di ricchezza. Secondo una delle critiche più feroci, la lotteria aveva ridotto intere frange della popolazione americana al livello di tossicodipendenza, nella disperata rincorsa a quell’assegno stratosferico. Eppure, la Lotteria Nazionale continuava imperterrita, come se fosse a prova di bomba.

E avrebbe continuato a macinare biglietti, denaro e tutto il resto finché fosse rimasta integra. Nel momento in cui la truffa fosse emersa, le teste sarebbero cadute una via l’altra, e neppure quella del Presidente sarebbe stata esente da rischi. Nello Studio Ovale, a George Masters era stata affidata una precisa missione: prendere LuAnn Tyler. E George Masters ci sarebbe riuscito, in un modo o nell’altro.

— Come va?

— E chi lo sa? — Riggs, braccio al collo, si lasciò cadere sul sedile della BMW. — Mi hanno talmente imbottito di analgesici che non so nemmeno più su quale pianeta siamo.

LuAnn avviò il motore, uscì dal parcheggio dell’ospedale e si immise di nuovo sulla Statale 29.

— Vuoi parlarne? — disse Riggs a un certo punto.

— Di che cosa?

— Del casino che ti ho combinato.

— Matthew, non ti sto attribuendo alcuna responsabilità.

Con la mano sana, lui diede un colpo contro il sedile. — Ho pensato che tu fossi finita in una trappola.

— E che cosa te lo ha fatto pensare?

— Ho ricevuto una telefonata, solo pochi minuti dopo che te ne eri andata.

— E cos’ha a che fare con me?

Prima di rispondere, lui trasse un profondo respiro. — Tanto per cominciare, il mio nome non è Matthew Riggs. Cioè, questo è stato il mio nome negli ultimi cinque anni.

— Almeno siamo pari.

— Daniel Buckman — disse allora con un sorriso forzato, tendendole la mano. — Dan, per gli amici.

— Quali amici, con esattezza, Matthew? — LuAnn aveva ignorato il gesto. — Quelli che sono al corrente del fatto che Daniel Buckman è tecnicamente morto?

Riggs ritirò la mano.

— O forse stai parlando degli amici del Programma di Protezione Federale per i Testimoni?

— Jackson?

— Ti avevo detto che può fare qualsiasi cosa, se non sbaglio — disse lei con impazienza. — Stai cominciando a credermi?

— Qualcuno è entrato nel computer centrale dell’Fbi, accedendo illegalmente ai miei dati — spiegò Riggs. — Di questo mi avvertiva la telefonata. Ho ipotizzato che si trattasse di Jackson. E che se sapeva della mia… vita precedente, avrebbe potuto porre fine alla tua vita corrente.

— È sempre possibile, con quell’uomo.

— In ogni caso, ora so che faccia ha.

— Quella non era la sua vera faccia, Matt.

— Che cosa?

— Non è mai la sua vera faccia!

LuAnn ripensò alla maschera di gomma che si era ritrovata fra le mani. Era lei ad aver visto la sua vera faccia, non Riggs. E adesso, Jackson non si sarebbe fermato fino a quando non avesse rimosso un testimone cosi scomodo.

LuAnn fece scorrere nervosamente le mani sul volante, poi disse: — Jackson sostiene che eri un criminale. È vero, Matthew?

— Mi stai dicendo che credi a tutto ciò che dice? Nel caso non te ne fossi accorta, quel figlio di puttana è uno psicopatico!

— Per cui tu non fai parte del Programma di Protezione Federale per i Testimoni?

— LuAnn, quel programma non è stato creato a esclusivo uso e consumo dei criminali.

— Che cosa vuoi dire?

— Tu credi davvero che un delinquente possa comodamente tirare su il telefono e ottenere su di te il genere d’informazioni che ho ottenuto io?

— Non lo so. Perché no?

— Ferma la macchina.

— Cosa?

— Ferma questa maledetta macchina! — tuonò Riggs.

LuAnn svoltò nella prima area di parcheggio e si fermò.

Riggs si protese sotto il sedile del guidatore, ripescò la microspia, la sollevò all’altezza degli occhi di lei.

— Tu credi davvero che un criminale possa avere accesso a questo tipo di tecnologia?

LuAnn lo fissava con occhi sbarrati.

— Allora… — Riggs respirò a fondo. — Il mio nome è Daniel Buckman. Fino a cinque anni fa, ero un agente speciale dell’Fbi, infiltrato nelle bande che operavano lungo il confine tra Messico e Texas. Dei tipi molto eclettici: traffico di droga, assassinio su commissione, ogni genere di crimine. Per un intero anno, sono stato immerso in quella merda fino al collo. A un certo punto, raccolte le prove, quando il Bureau piombò loro addosso io ero il testimone chiave per l’accusa. Una buona parte di loro è finita in un carcere di massima sicurezza con una condanna all’ergastolo. Solo che a qualcuno tutto questo proprio non è andato giù. In prima fila, i boss della cocaina della Colombia, che avevano perso centinaia e centinaia di milioni di dollari di profitti esentasse. Mi volevano, LuAnn. Volevano farmi a pezzi. Così feci la cosa buona, saggia e giusta: chiesi al Bureau di sparire.