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— Già — fece Riggs. — Arrivare in un motel in due su un cavallo, penso proprio che potrebbe insospettire qualcuno.

LuAnn gettò un ultimo sguardo a Wicken’s Hunt. — L’altra mia macchina è chiusa nel garage. Sai quanto è utile con la casa che brulica di agenti…

— Un momento! — esclamò Riggs stringendola più forte. — Ce l’abbiamo, una macchina!

Nel buio pieno di ragnatele, un motore a quattro cilindri si avviò con un sussulto. La Honda nera presa a nolo dal fasullo signor Tom Jones, alias Thomas Donovan, con la parte anteriore danneggiata nell’inseguimento, emerse lentamente dal capanno dietro il villino nella foresta. Riggs la fermò poco oltre la soglia, tirò il freno a mano e scese lasciando il motore acceso.

— Visto niente?

— Niente — rispose LuAnn scuotendo la testa.

Era rimasta di guardia sulla radura, tenendo Joy per le redini, pronta a dare l’allarme nel caso qualcuno fosse apparso.

— Del cavallo che cosa ne fai? — le chiese Riggs.

— Potrei rimandarla lungo la pista. Quasi certamente ritroverebbe la strada per la stalla, ma con questo buio…

— Che ne dici di lasciarla nella rimessa? Puoi telefonare a uno dei tuoi e mandarlo a riprenderla più tardi.

— Buona idea.

LuAnn condusse Joy nel capanno, che si rivelò fornito di ganci alle pareti, di fieno e di abbeveratoio.

— Sembra che anche l’inquilino precedente avesse una passione per i cavalli.

LuAnn legò il cavallo a uno dei ganci, riempì l’abbeveratoio e mise del fieno di fronte all’animale. Immediatamente, Joy vi infilò il muso e cominciò a mangiare.

Riggs si sistemò sul sedile della Honda. LuAnn richiuse le porte del capanno e andò a sedersi alla guida. Non c’erano chiavi infilate nell’accensione. Cavi multicolori collegati alla meno peggio penzolavano sotto il cruscotto.

— Corso di rubamacchine dell’Fbi?

— Non hai idea di quello che s’impara nel freddo e ostile mondo là fuori — rispose Riggs.

— E invece ce l’ho — ribatté lei mettendo la mano sulla leva del cambio.

— Ascolta, LuAnn — disse Riggs con tono improvvisamente serio. — Abbiamo una sola possibilità di uscire interi da questa storia.

— Di che cosa stai parlando?

— I Federali possono essere molto tolleranti con chi collabora.

— Ma Matthew…

— Inoltre arrivano a essere incredibilmente generosi con chi dà loro quello che vogliono.

— Stai suggerendo quello che penso?

— Dobbiamo semplicemente consegnargli Jackson.

— Meno male! — esclamò LuAnn inserendo la marcia. — Per un momento ho creduto che si trattasse di qualcosa di più complicato.

48

Erano le dieci del mattino. Thomas Donovan puntava con discrezione il binocolo verso il suo obiettivo. Si trovava a McLean, in Virginia. Era una zona che pullulava di ville da molti milioni di dollari, collocate su ettari di verde perfettamente curato e circondate da alberi. Donovan era appostato da ore e l’abitazione che stava tenendo d’occhio non faceva eccezione: tre piani in puro stile coloniale, candido colonnato frontale, capitelli ionici, giardino vasto quanto un campo di football.

Prima di rimettersi in pista, il giornalista aveva controllato i messaggi sulla segreteria telefonica e aveva ascoltato l’avvertimento di LuAnn. Pur non avendo alcuna intenzione di mollare, aveva considerato quel consiglio molto seriamente. E sarebbe stato pazzo a fare diversamente, avendo a che fare con un individuo in grado di controllare un sistema così complicato come la lotteria. Quasi inconsciamente, Donovan si frugò nella tasca della giacca, trovò la pistola e verificò che fosse carica.

Quando tornò a guardare nel binocolo, una Mercedes color argento metallizzato, nuova di zecca, apparve in fondo all’isolato. Si arrestò di fronte alla cancellata d’ingresso, attendendo che si aprisse.

Donovan spostò la focale sulla persona alla guida. Una donna sulla quarantina, ben truccata, elegante, signorile, perfettamente in sintonia con l’ambiente. Non era cambiata di molto dalle foto prese alla conferenza stampa della sua vincita alla lotteria di dieci anni prima. I miracoli del denaro: perfino la vecchiaia perdeva colpi di fronte ai quattrini.

La Mercedes s’inoltrò nel vialetto d’accesso e scomparve dietro la struttura bianca della villa. Donovan attese qualche altro minuto, lanciando occhiate guardinghe in tutte le direzioni. Poi gettò la sigaretta fuori dal finestrino, guidò fino alla cancellata e premette il pulsante del citofono. La voce femminile che gli rispose pareva tesa, piena di disagio. Il cancello si aprì, e un minuto dopo, Donovan entrava nel sontuoso atrio della villa coloniale.

— Signorina Reynolds?

La donna che lo stava attendendo annuì, facendo di tutto per evitare lo sguardo di lui.

Prima di andare all’attacco di persona, Donovan aveva fatto estese ricerche su Bobbie Jo Reynolds. Dieci anni prima era un’attricetta dalla gonna troppo corta e dalla scollatura troppo profonda che sbarcava il lunario come cameriera. Adesso era un’elegante e sofisticata dama dell’alta società di Washington, tornata negli Stati Uniti da cinque anni dopo un lungo periodo nel Sud della Francia. Donovan si domandò se lei e Alicia Grane frequentassero il medesimo circolo di bridge.

Dopo l’inquietante vicolo cieco rappresentato da LuAnn Tyler, Donovan si era messo a caccia degli altri undici vincitori. Trovarli era stato estremamente più facile di quanto non fosse stato rintracciare LuAnn. In fondo, loro non erano sulla lista dei ricercati dalla polizia. Quanto meno, non ancora. Parlare con loro, invece, era stato molto meno facile. Cinque su undici gli avevano attaccato il telefono in faccia. Altri quattro non avevano risposto ai suoi ripetuti messaggi. Herman Rudy, infine, lo aveva mandato a quel paese con un linguaggio che Donovan non sentiva dai tempi del servizio militare in Marina. Bobbie Jo Reynolds era stata l’unica a lasciargli uno spiraglio di comunicazione.

Ora lo stava precedendo in quello che Donovan immaginò essere il soggiorno, cioè un ampio salone che l’originale talento di un architetto aveva arredato con mobili in stile moderno, e impreziosito qua e là da pezzi d’antiquariato.

— Gradisce qualcosa, signor Donovan? — domandò la Reynolds, sempre senza guardarlo e con le dita che continuavano nervosamente a intrecciarsi. — Tè? Caffè?

— No, grazie. — Donovan estrasse un piccolo registratore. — Non le dispiace se registro questa conversazione, vero?

— Sì che mi dispiace.

Ma guarda, pensò Donovan, la signora ha un po’ di spina dorsale. Meglio affrontare la questione subito, prima di darle un eccessivo vantaggio.

— Signorina Reynolds, nel momento in cui lei mi ha richiamato, ho tratto la conclusione che lei fosse disponibile a parlarmi. Come lei sa, sono un giornalista. Con un’etica professionale. Non voglio metterle le parole in bocca, anzi voglio che la situazione sia assolutamente cristallina. Non è d’accordo?

— Sì, ecco… Suppongo di sì. Per questo ho accettato di vederla. Non voglio che sul mio buon nome si addensino ombre. È importante che lei capisca che sono una rispettabile esponente di questa comunità. Ho elargito generose donazioni a svariate associazioni benefiche. Faccio parte di numerose…

— Con tutto il rispetto, signorina Reynolds — tagliò corto Donovan — non mi trovo qui per parlare delle sue opere di beneficenza. A proposito, lei permette che la chiami Bobbie Jo?

Una piccola smorfia le increspò l’espressione. — Roberta — dichiarò alteramente.

Proprio lo stile da circolo di bridge. E di nuovo il richiamo ad Alicia Crane fu così forte che Donovan dovette reprimere l’impulso di chiederle se la conosceva.