Thora si morse la punta della lingua per non farsi scappare che di solito non andava al lavoro così presto. «Otto e mezzo, allora. Arrivederla.»
«Frau Gudmundsdottir…» disse Matthew.
«Mi chiami pure Thora, e diamoci del tu, che è molto più semplice», lo interruppe la donna, che si sentiva una novantenne quando le davano della signora, con quel cognome lunghissimo e solenne.
«Va bene, Thora allora», riprese Matthew. «Un’ultima cosa per finire.»
«Cosa?» chiese lei con curiosità.
«Non mangiare niente di pesante a colazione. Non sarà un bello spettacolo.»
7 dicembre 2005
6
C’erano indubbiamente cose assai più facili al mondo che parcheggiare all’Ospedale Nazionale. Matthew finalmente trovò un buco a una considerevole distanza dall’edificio che ospitava l’istituto di Patologia.
Thora si era presentata in ufficio presto quella mattina e aveva scritto una lettera da inviare alla polizia per ottenere la consegna dei documenti dell’investigazione in qualità di rappresentante legale della famiglia. Infilata la lettera nella busta, la posò sul vassoio di Bella perché la spedisse — almeno così sperava Thora — entro la giornata. Per aumentare le probabilità che la lettera arrivasse immediatamente alla cassetta postale, Thora decise di mettere sulla busta un post-it con la scritta: «Da non spedire prima di lunedì»! Poi telefonò alla Scuola di Volo per chiedere informazioni sulla cifra spesa da Harald a settembre, come risultava dall’estratto conto della carta di credito. L’impiegato diede a Thora l’informazione che cercava, cioè che Harald aveva noleggiato un biplano con pilota per un’escursione giornaliera a Holmavik. Con una rapida scorsa alla voce «Holmavik» su internet, Thora non impiegò molto a rendersi conto di cosa avesse attratto Harald in quel paesino del Nord: il Museo della Magia di Strandir. Chiamò poi anche l’Hotel Ranga per verificare i movimenti della vittima nella zona e venne a sapere che Harald aveva prenotato due camere e pernottato nell’albergo per due notti consecutive. I nomi sul registro erano quelli di Harald Guntlieb e Harry Potter. Che bella trovata il secondo nome!
Thora passò tutte le informazioni a Matthew, mentre giravano nel parcheggio dell’ospedale alla ricerca di un posto.
«Era ora!» disse Matthew mentre infilava la vettura noleggiata in un buco appena lasciato libero.
Sì diressero entrambi verso l’istituto di Patologia, situato dietro l’edificio centrale. Aveva nevicato durante la notte, ma Matthew con le sue falcate non faceva fatica a superare i mucchietti di neve. Il vento gelido da nord attanagliava i capelli di Thora. Quella mattina aveva deciso di pettinarseli lisci, e ora se ne pentiva perché li vedeva svolazzare in ogni direzione. Quanto sarò bella quando arriviamo, pensò tra sé e sé. Si arrestò per un istante, voltò le spalle alle folate violente e tentò di raccogliere i capelli nella pesante sciarpa invernale. Non certo un figurino all’ultima moda, ma sicuramente meglio di un caos totale sulla testa. Terminate le operazioni di salvataggio della chioma, Thora accelerò il passo per raggiungere Matthew.
Arrivati finalmente a destinazione, l’uomo si girò verso Thora per la prima volta da quando avevano lasciato l’auto al parcheggio e non poté far altro che guardarla allibito, con quella sciarpa avvolta attorno alla testa. Lei a sua volta non poté che immaginarsi il suo aspetto, e ne ottenne una dura conferma quando Matthew le disse: «Dentro c’è sicuramente un bagno dove potrai sistemarti».
Thora si morse la lingua per evitare commenti, gli sorrise gelida e spalancò a forza l’entrata dell’istituto. Qui domandò a un’inserviente che spingeva un carrello di acciaio dove sì trovasse il medico con cui avevano l’appuntamento. Dopo essersi assicurata che il medico li stesse aspettando, la donna li fece accomodare in una stanza in fondo al corridoio, pregandoli di pazientare un momento perché il patologo avrebbe fatto presto ritorno da una riunione mattutina.
Thora e Matthew si accomodarono su due sedie malmesse, appoggiate alla parete del corridoio di fronte allo stanzino.
«Non avevo affatto intenzione di offenderti. Scusami», disse Matthew senza guardare in faccia Thora.
Lei non aveva alcuna voglia di mettersi a discutere del proprio look, perciò non gli rispose. Si tolse la sciarpa dai capelli con la massima dignità possibile, si sbottonò il piumino e allungò una mano verso la pila di riviste sgualcite che giacevano sul tavolino in mezzo alle due sedie.
«Sono quasi reperti archeologici», borbottò Thora cercando qualcosa tra quell’ammasso di vecchie edizioni.
«Penso che chi viene qui non lo faccia per trovare qualcosa da leggere», replicò Matthew, che sedeva con la schiena diritta, guardando nel vuoto.
Thora smise di rovistare. Si era innervosita. «No, probabilmente no», ammise guardando spazientita il suo orologio. «Dove diavolo è questo dottore?»
«Prima o poi arriverà», fu la secca risposta di Matthew. «Anche se a dire il vero ho dei ripensamenti riguardo a questo incontro.»
«Che vuoi dire?» chiese Thora esasperata.
«Voglio dire che non sarà un bello spettacolo per i tuoi nervi tesi», rispose Matthew girandosi verso di lei. «Non hai nessuna esperienza di queste cose e non sono affatto sicuro che ti troverai a tuo agio. Non pensi che sarebbe meglio se ti riferissi io le risposte del medico sull’autopsia?»
Thora lo fulminò con lo sguardo. «Ho messo al mondo due figli con le relative doglie, la perdita di sangue, la placenta, i tappi di muco e tutto il resto. Sopravviverò anche a questo.» Poi incrociò le braccia e domandò a bruciapelo: «E tu, quanto hai sofferto tu?»
Matthew non sembrava impressionato dalla sfuriata di Thora. «Molto e profondamente. Ma almeno io te ne risparmio il racconto. A differenza di te, non ho alcun bisogno di cadere nell’autocommiserazione!»
Thora stralunò gli occhi. E dire che lo aveva considerato cortese! Meglio mettersi a leggere il giornalino dei Testimoni di Geova che continuare a discutere con una persona così sgarbata. Era arrivata a metà nella lettura di un articolo sulla cattiva influenza della televisione sulla gioventù, quando vide un signore vestito in camice bianco avanzare trafelato lungo il corridoio in direzione dello stanzino. Era una persona sulla sessantina, con barba appena grigia e una bella abbronzatura. I suoi occhi erano circondati da pallide rughe di espressione, che facevano pensare a una bella e divertente vacanza al sole. Il medico si fermò davanti a loro e Thora e Matthew si alzarono in piedi.
«Buongiorno», disse l’uomo porgendo la mano. «Thrainn Hafsteinsson.»
Thora e Matthew si presentarono a loro volta.
«Prego, accomodatevi», disse il medico in inglese, in modo che anche Matthew capisse, e aprì la porta del suo ufficio. «Scusatemi per il ritardo», aggiunse subito in islandese, rivolto questa volta solamente a Thora.
«Non si preoccupi», rispose lei amabilmente. «C’è una tale abbondanza di riviste interessanti in sala d’attesa, che avrei voluto attendere ancora un po’.»
Il medico la fissò meravigliato. «Sì, ha ragione.» I tre entrarono nell’ufficio, quasi del tutto privo di spazi vuoti. Le pareti erano per lo più tappezzate di scaffali con libri e riviste di medicina di ogni genere e grandezza, inframmezzati da schedari. Il medico avanzò verso una scrivania di legno massiccio, dove ogni cosa era in perfetto ordine, e si sedette, invitandoli ad accomodarsi su due sedie di fronte a lui. «Allora», disse posando i gomiti sul bordo della scrivania, come per sottolineare l’inizio formale del loro incontro. «Suppongo che la nostra intervista si debba svolgere in inglese, dico bene?»