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«Halldor? Certamente, senza alcun dubbio», rispose Björn con foga. «Ormai ho cominciato a riconoscerlo, per così dire. Lui e quel suo amico, quello straniero che hanno ammazzato, venivano spesso insieme qui da noi, e non passavano certo inosservati. Il tedesco era proprio un tipo speciale. Mi chiamava sempre con il nomignolo di Baer, che appunto significa Björn, cioè orso, in tedesco. E poi ogni tanto Halldor veniva da solo e ci mettevamo a parlare al bancone.»

«E quella sera lo ha fatto?»

«No, era impossibile. C’era una gran folla e io ero costretto a correre da un tavolo all’altro per tutto il locale. In ogni modo lo salutai e ci scambiammo delle frasi di convenienza. Devo confessare che quella sera era di cattivo umore, per cui non mi trattenni che pochi istanti con lui.»

«Ma come fai a sapere con certezza l’ora del suo arrivo? Alla luce di quello che mi stai dicendo, eri troppo impegnato per notarlo. Oppure avevi delle altre ragioni per farlo?»

«Semplice», disse Björn, «appena entrato aprì il suo conto della serata, per non dover pagare ogni volta che ordinava qualcosa. La regola da noi è quella di scrivere l’ora della prima richiesta, e l’ora della chiusura del conto, quando il cliente salda l’intera somma.» Björn rivolse a Thora un sorriso di complicità. «E ti dirò che quella sera aveva fatto bene ad aprire il conto, visto quello che poi ha consumato. Avrebbe surriscaldato la carta di credito, se l’avesse usata ogni volta che ordinava da bere.»

«Capisco», disse Thora. «Ma sei proprio sicuro che sia rimasto tutto il tempo seduto qui dentro a bere fino all’arrivo dei suoi amici, verso le due? Non avrebbe potuto uscire e rientrare senza che tu te ne accorgessi?»

Björn ci pensò su prima di rispondere. «Beh, naturalmente non posso giurare che sia rimasto tutto il tempo nel bar. Mi pareva di esserne sicuro, e l’ho detto alla polizia, ma a ben guardare potrei anche aver tirato le somme basandomi sulle sue ordinazioni, che in effetti non sono passate tutte quante da me. Può anche darsi che qualcun altro abbia messo in conto qualcosa a suo nome, non lo so.» Il cameriere fece un gesto largo con le mani indicando il locale. «Comunque, questo non è un posto tanto grande e penso, sinceramente, che se fosse andato via me ne sarei accorto. O per lo meno lo credo probabile.»

Thora non sapeva più che cosa chiedere al ragazzo a proposito di quella sera. Non le sembrava comunque un teste molto attendibile, quindi l’alibi di Halldor non poteva più considerarsi inconfutabile. Allora ringraziò Björn e salutandolo gli porse il suo biglietto da visita, nel caso gli fosse venuto in mente qualcos’altro di importante, benché ne dubitasse. Poi si rivolse di nuovo a Matthew e al suo caffè, che ormai si era raffreddato, e spiegò al collega, tra un sorso e l’altro, ciò che le aveva detto il cameriere. Infine si accorse che era giunta l’ora di tornare a casa. I due pagarono il conto e uscirono.

Si stavano facendo le cinque e il traffico era ancora leggero. In giro non c’era quasi nessuno, visto il clima freddo e umido, e i pochi coraggiosi che osavano camminare per i marciapiedi del centro avanzavano in fretta, senza guardarsi intorno né dare un’occhiata alle vetrine.

Thora decise di non passare per niente in ufficio, e accettare che Matthew la accompagnasse a recuperare la sua auto nel parcheggio custodito. Ma prima doveva avvertire Bella delle sue intenzioni e controllare se fosse accaduto qualcosa d’importante in sua assenza.

«Pronto?» fu la solita risposta laconica della segretaria, che non sprecava mai energie per specificare il tipo di attività dello studio.

«Bella», esordì l’avvocatessa cercando di assumere un tono sereno, «sono Thora, per oggi non ritorno in ufficio. Vengo invece domani mattina intorno alle otto.»

«Oh!» fu la sua risposta sibillina.

«C’è qualche messaggio per me?»

«Come faccio a saperlo io?» rispose sgarbata la ragazza.

«Come? Beh, io sono talmente ottimista da pensare che tu, segretaria e centralinista, potessi essere incappata per sbaglio in qualche messaggio. Il che è ovviamente un’assurdità, e io sono ingenua a pensarlo.»

Dall’altra parte della linea ci fu un attimo di smarrimento, seguito da un’affermazione perentoria: «Sono le cinque, da questo momento non sono più tenuta a parlare con te. Il mio turno odierno è finito». E riattaccò.

Thora fissò incantata il suo cellulare e borbottò, più tra sé e sé che a Matthew: «E se Bella e Mal fossero la stessa persona?»

«Cosa?» erano arrivati al parcheggio custodito e Matthew accostò al marciapiedi.

«Ah, niente, niente», disse Thora slacciandosi la cintura di sicurezza. «Tu cos’è che fai tutte le sere solo soletto?»

«Un po’ di tutto», rispose l’uomo. «Vado fuori a mangiare, faccio il giro dei locali notturni del centro o una di quelle escursioni per turisti, vado a visitare i musei, cose del genere.»

Thora si intenerì per lui: doveva soffrire molto la solitudine. «Domani è venerdì e i miei figli passano il fine settimana con il padre. Se vuoi ti posso invitare a cena, che ne dici?»

Matthew sorrise. «L’idea mi piace, se però mi prometti di non cucinare il pesce. Ne ho già mangiato così tanto che mi cresceranno le pinne.»

«No, stavo pensando a qualcosa di più semplice, tipo ordinare una pizza», propose scendendo dall’auto. Sperava che, prima di salire sul suo catorcio, Matthew se ne fosse già andato. Se non gli era piaciuto il suo giaccone, gli sarebbe venuto un infarto a vedere l’improbabile mezzo di trasporto che era costretta a guidare in quei giorni. Purtroppo il suo desiderio non si avverò. Matthew aspettò di vederla seduta al volante, poi la chiamò ad alta voce.

«Stai scherzando, spero», gridò sporgendosi dal finestrino. «Che cos’è quella roba?»

Thora alzò il mento e rispose flemmatica: «È un’auto d’epoca. Vuoi fare cambio?»

Matthew scrollò il capo e chiuse il finestrino. Poi ripartì ridendo, o almeno così parve a Thora.

La sera prima lei si era accordata con un’altra madre perché portasse sua figlia e Soley a casa sua dopo la scuola, per cui ora passò a riprendere la bambina, ringraziò per il favore la donna, una signora ancora giovane e snella, e si sentì assicurare che era stato meglio badare a due ragazzine che si fanno compagnia anziché a una sola. Thora accettò con gioia la proposta di ripetere l’esperienza al più presto, e aggiunse che un giorno sperava di poter contraccambiare il piacere. Il giorno in cui il sole sorgerà a ovest.

L’entrata del suo appartamento era un ammasso confuso di vestiti, scarpe e adolescenti. Gli amici di Gylfi avevano fatto visita a suo figlio e ora se ne stavano andando. Tre ragazzi dinoccolati che Thora conosceva bene e una ragazza erano indaffarati a recuperare scarpe e giacconi sparsi alla rinfusa, nonché gli zainetti malconci con i libri di scuola.

«Ciao», li salutò Thora con fare amichevole, infilandosi in quel gruppetto caotico ed entrando nell’appartamento. Suo figlio stava in piedi sulla soglia del salottino e seguiva le operazioni in corso, altrettanto giù di morale quanto lo era stato quella mattina. «Stavate studiando?» chiese Thora, ben sapendo che si trattava di un concetto impensabile. A quell’età i ragazzi non si incontravano mai per studiare, e chi avesse proposto una cosa del genere sarebbe stato immediatamente bandito dal gruppo. Era comunque suo dovere di genitore fare osservazioni di tale assurdità.

«Ehm, no», rispose Patti, da molti anni amico del cuore di Gylfi. Era un ragazzo perbene, con la curiosa peculiarità di poter dire in qualsiasi momento quanti mesi, giorni e ore gli mancavano per prendere la patente di guida. Thora una volta aveva voluto controllare quei numeri e ne aveva verificato l’esattezza quasi perfetta.

Thora lanciò un sorriso alla ragazza, che invece abbassò timidamente lo sguardo. Non riusciva proprio a ricordarsi come si chiamava, anche se ultimamente l’aveva vista molto più spesso del solito dentro casa. Anche Gylfi negli ultimi tempi era maturato molto, ed era probabile che si fosse preso una cotta per quella ragazza. In effetti era molto carina, anche se in confronto agli altri sembrava una bambina.