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Prima di sedersi a discutere con Gylfi sul bambino che doveva nascere parlò a lungo con la sua amica Laufey, la quale le consigliò di spiegare a suo figlio che cosa stesse concretamente per succedergli. Poteva essere utile proporgli dei compiti per iniziare a considerare una persona il piccolo. In tal modo si sarebbe reso conto di che cosa sarebbe successo in futuro. Tra le altre cose, poteva fargli cominciare a scegliere il nome del neonato.

Thora e i tedeschi sedevano ora alla caffetteria deserta del municipio. Elisa si era fatta scappare alcune lacrime mentre ascoltava il resoconto di Matthew, mentre la madre di Harald era rimasta immobile e inespressiva a guardare le sue mani o il tavolo davanti a sé. Alla fine però la signora sollevò gli occhi e respirò profondamente. Nessuno diceva niente, quasi che tutti aspettassero col fiato sospeso la sua reazione. Ma non successe niente. Lei spinse lo sguardo oltre l’ampia vetrata che dava sul laghetto là fuori e si mise a seguire le anatre che nuotavano felici in compagnia di alcune oche. Il vento increspava la superficie dello specchio d’acqua e gli uccelli si sollevavano e si inabissavano tra le onde con aria tranquilla. A un tratto un gabbiano si tuffò tra i flutti e si unì agli altri volatili. «Perché non andiamo a vedere il plastico dell’Islanda?» Matthew propose all’improvviso a Elisa. «Si trova nel salone qui a fianco.» Elisa annuì senza entusiasmo, i due si alzarono e se ne andarono nell’ampia sala contigua, lasciando sole Thora e la madre di Harald.

La signora si era accorta del fatto che ora al tavolo mancavano due persone? Thora si schiarì la gola cortesemente, senza alcun risultato. Allora decise di attendere ancora qualche minuto prima di passare all’azione.

«Non ho nessuna esperienza di simili situazioni, per cui non so come articolare le mie condoglianze. Certo, non posso nemmeno immaginare il suo dolore per una simile perdita, ma…»

La donna sbuffò. «Io non merito nessuna simpatia o commiserazione, né da lei né da nessun altro.» Tolto lo sguardo dalla finestra, lo rivolse verso Thora. La sua espressione, che in un primo momento rimase granitica, cominciò ad addolcirsi. «Mi perdoni. Non sono in me.» Posò le mani sul tavolo e si mise a giocherellare distrattamente con gli anelli. «Non so perché mi sento costretta a parlarle. Forse perché non la rivedrò più. O forse perché voglio avere l’occasione di giustificare il mio comportamento, che ha avuto queste conseguenze disastrose.»

«Ma lei non è affatto tenuta a spiegarmi niente», rispose Thora alzando una mano. «Non sono nata ieri e so che spesso dietro azioni che sembrano sconsiderate c’è una spiegazione logica.»

La signora sorrise tristemente. Thora non poté non notare il suo perfetto maquillage. Anche se l’età aveva cominciato a dire la sua, il suo aspetto era ancora giovanile, e la bellezza aveva appena cominciato a sfiorire, cedendo il passo a un’eleganza senza età. Il suo abbigliamento non faceva altro che rafforzare quell’impressione di dignità e raffinatezza. Thora immaginava che il completo pantaloni e il cappotto della donna costassero più di quanto lei spendesse in vestiti in un anno.

«Harald era un figlio così bello e bravo», riprese la signora Guntlieb con sguardo sognante. «Quando nacque eravamo tutti al settimo cielo. Avevamo già avuto Bernd, ed ecco che arriva un altro stupendo bambino. Gli anni che seguirono, fino alla nascita di Amelia, me li ricordo come se fossero stati il paradiso. Nemmeno un’ombra a posarsi sulla nostra felicità.»

«Ma Amelia era malata, vero?» chiese Thora. «Era nata con una malformazione?»

Il sorriso della donna scomparve altrettanto improvvisamente di come era comparso. «No. Nacque perfettamente sana. Era il mio ritratto vivente, a giudicare dalle foto che avevo di quando ero bambina io. Era magnifica, come lo sono stati tutti i miei figli. Dormiva bene e piangeva solamente ogni tanto. Nessuno di loro soffrì di coliche o di otiti. Dei bambini da sogno.»

Thora si limitò ad annuire, non sapendo che cosa commentare dopo una simile enfasi.

«Harald…» La sua voce si interruppe. Fece una pausa e cercò di calmarsi prima di riprendere, asciugandosi con un gesto secco della mano la lacrima che aveva iniziato a scivolarle su una guancia. «Di questo non ho mai parlato con nessuno, eccetto che con mio marito e i nostri medici di famiglia. Mio marito ha rivelato il segreto solamente ai suoi genitori e a nessun altro. Noi non siamo una famiglia aperta e ci risulta difficile parlare di cose personali. Non ci piace ricevere la compassione degli altri, preferiamo tenere i nostri problemi per noi. O almeno penso che questa sia la ragione del nostro silenzio.»

«Capisco», disse Thora senza in realtà capire a che cosa si riferisse la donna. Per fortuna lei fino ad allora non aveva avuto bisogno della compassione di nessuno.

«Harald era geloso della sorella, benché ne fosse al contempo invaghito. Lui era stato il mio piccolo per più di tre anni, e non riusciva a rassegnarsi alla comparsa di un nuovo membro nella famiglia. Noi sottovalutammo il problema, ci aspettavamo che si risolvesse da solo.» Ora le lacrime presero a scendere a fiotti. «La fece cadere per terra, se la fece sfuggire apposta!» Poi la donna tacque e si rimise a seguire gli uccelli con lo sguardo.

«Fece cadere la bambina per terra?» domandò Thora, facendo attenzione a non lasciar trasparire alcun sentimento dal suo tono di voce. Un brivido ghiacciato le percorse la spina dorsale.

«Amelia aveva quattro mesi e dormiva nella sua carrozzina. Eravamo appena tornati a casa dopo aver fatto la spesa. Io andai a togliermi il soprabito e quando ritornai in salotto vidi Harald che la teneva in braccio. Anzi, non proprio in braccio: la reggeva sotto le ascelle come un orsacchiotto di pelouche. Lei naturalmente si era svegliata e si era messa a piagnucolare. Lui allora iniziò a sgridarla e scuoterla. Io accorsi, ma fu troppo tardi. Lui mi guardò in volto e sorrise. Poi la fece cadere, e la bambina sbatté il capo sul pavimento di ceramica.» Le lacrime colavano l’una dietro l’altra, lasciando sulle guance della donna una scintillante striatura. «Non ho mai potuto cancellare quell’attimo dalla memoria. Ogni volta che guardavo Harald, vedevo il volto che aveva quando fece cadere la piccola.» La donna tacque di nuovo per riprendere forza, e continuò: «Mia figlia subì un trauma cranico, ed entrò in coma all’ospedale. Quando si risvegliò, non era più la stessa. Il mio piccolo angioletto.»

«Vi hanno forse sospettato di maltrattamenti? Qui da noi sarebbe immediatamente partita un’investigazione sulla famiglia.»

Il volto di Amelia espresse una sorta di malcelata compassione per l’ingenuità di Thora. «No, non dovemmo subire niente del genere. Il medico di famiglia ci fornì la sua assistenza, mentre gli altri dottori che curarono nostra figlia ci mostrarono tutta la loro comprensione. Harald venne inviato da uno specialista per una terapia, che però non ebbe alcun risultato. Niente portava a pensare che avesse una malattia mentale. Era un bambino normale che aveva commesso un errore imperdonabile per gelosia.»

Thora si permise di dubitare che un tale comportamento da parte del piccolo Harald potesse classificarsi sotto la dicitura «normale». Ma d’altronde che ne sapeva lei? «Harald sapeva quello che aveva fatto, oppure se ne dimenticò con il passare del tempo?»

«Non saprei che dirle. Dopo quel fatto parlammo raramente insieme, lui e io. Ma per tutta la breve vita della sorella Harald le fu sempre vicino e se ne prese massima cura. Era come se volesse rimediare al danno combinato e farsi perdonare per la sua malefatta.»

«Allora il vostro rapporto per tutti questi anni è stato caratterizzato dal ricordo di quanto successo alla sorella?» domandò Thora.

«Non si può nemmeno parlare di rapporto. Non riuscivo proprio a guardarlo in faccia, figuriamoci a stargli accanto. Si può semplicemente dire che lo evitavo in ogni modo. E lo stesso fece suo padre, in un certo senso. Per Harald la cosa si rivelò ardua da sopportare, in un primo momento, ma poi sembrò abituarsi.» Ora la donna aveva smesso di piangere e un velo di durezza si era posato sui suoi lineamenti. «Ovviamente avrei dovuto perdonarlo, ma non potei farlo, lo confesso. Forse avrei dovuto andare anch’io da uno specialista per cercare di superare la mia crisi. Magari tutto sarebbe cambiato e Harald sarebbe diventato un’altra persona, diversa da quella che è stata in realtà.»