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Per un attimo pensò di accendere la radio rice­vente, ma se i suoi uomini avessero cominciato a lanciare messaggi… No. Le creature si sarebbero in­sospettite e avrebbero potuto reagire con violenza.

Se non rispondo, i miei uomini si accorgeranno che c’è qualcosa che non va, pensò. Mi seguiranno.

Sempre che qualcuno sia in ascolto.

«Dove stiamo andando?» chiese Joao.

«Molto lontano», rispose l’indiano.

Joao si preparò a un lungo viaggio. Devo essere paziente, pensò. Paziente come un ragno in attesa di fianco alla ragnatela.

Le ore trascorrevano velocemente: due, tre… quat­tro.

Nient’altro che la giungla rischiarata dalla luna scorreva sotto di loro. La luna era bassa all’orizzonte, vicina al tramonto. Stavano sorvolando l’in­terno della zona Rossa dove, all’inizio, erano stati impiegati potenti insetticidi con risultati disastrosi. Là erano state scoperte le prime metamorfosi ab­normi.

Il Goyaz.

Rhin Kelly avrebbe dovuo trovarsi laggiù, secondo le informazioni di suo padre.

Il Goyaz: ecco la regione che avevano riservato per l’assalto finale, usando barriere mobili se l’ac­cerchiamento si fosse rivelato insufficiente.

«Quando atterriamo?» chiese Joao.

«Presto.»

Joao innescò la carica di emergenza che, una volta esplosa, avrebbe separato il compartimento frontale da quello di coda. Le ali della capsula e i motori a razzo lo avrebbero catapultato nella zona bandeirante.

Con i due «esemplari» là dietro, si augurò Joao.

Alzò lo sguardo per scrutare l’orizzonte. Era un autocarro che brillava al chiaro di luna laggiù a de­stra? Non poteva esserne certo… eppure gli sembra­va così.

«Presto?»

«Avanti», gracchiò la creatura. Il suono stridulo della sua voce lo fece rabbrividire.

Joao disse: «Mio padre…»

«Ospedale per… padre… avanti.»

Presto sarebbe stata l’alba. Joao vide la prima trac­cia di luce lungo l’orizzonte. La notte era trascorsa velocemente. Si domandò se il suo guardiano gli avesse iniettato a sua insaputa qualche sostanza ca­pace di fargli perdere la nozione del tempo. No, non era possibile. Si sentiva sveglio, pronto per qualsiasi evenienza. Non poteva permettersi di lasciarsi anda­re alla stanchezza e alla noia, doveva aguzzare lo sguardo per individuare le segnaletiche scarsamente visibili nella notte buia e tendere l’orecchio per cap­tare tutto ciò che poteva su quelle straordinarie crea­ture. Fu investito dall’odore acuto dell’acido ossalico.

Come si coordinavano fra loro tutte quelle unità di insetti?

Sembrava che avessero una coscienza, oppure era anche quella una simulazione? Che cosa avevano al posto del cervello?

Ormai era giorno. In lontananza apparve il pla­teau del Mato Grosso: un calderone di liquido gri­gio che ribolle sul tetto del mondo. Joao guardò dal finestrino in tempo per scorgere l’ombra lunga del carro volante che rimbalzava attraverso una radura: tetti di lamiera luccicavano sullo sfondo dello spiaz­zo erboso… un deposito abbandonato, oppure il barracao di una fazenda vicino alla frontiera del caffè. Un posto simpatico per costruirvi un magazzino; si ergeva di fianco a un corso d’acqua ed era circon­dato da terreno fertile e rigoglioso.

Joao conosceva quella regione; immaginò di rico­prirla col reticolo della carta topografica: essa si estendeva per cinque gradi di latitudine e sei di lon­gitudine. Una volta la zona era occupata da fazendas isolate e coltivata da indigeni indipendenti e da branco sertanistos schiavizzati dal sistema encomendero della piantagione. I genitori di Benito Alvarez erano originari di quella zona. C’erano foreste equa­toriali fitte di alberi di legno duro, savane, piccoli corsi d’acqua con gli argini ricoperti di una vege­tazione lussureggiante. Qua e là, vicino alle sorgen­ti dei fiumi, giacevano abbandonati da tempo i resti di un impianto elettrico come quello delle casca­te di Paulo Afonso, entrambi sostituiti dall’energia atomica e solare.

Ecco cos’era: il sertao Goyaz, una regione ancora selvaggia e inesplorata a causa degli insetti e delle malattie. Là si estendeva l’ultima roccaforte dell’e­misfero occidentale, brulicante di insetti, in attesa che una moderna tecnologia tropicale la trasportas­se nel ventunesimo secolo.

I rifornimenti per i bandeirantes impegnati nel­l’assalto sarebbero giunti via Sāo Paolo per mezzo di trasporti aerei e terrestri; quindi su antiquati tre­ni diesel fino a Itapira, su battelli fluviali fino a Bahus e tramite aerocarri fino a Registo e Leopoldina sull’Araguaya.

Una volta espugnata, la regione si sarebbe presto ripopolata; la gente vi avrebbe fatto ritorno dai tuguri dei sobborghi metropolitani e dalle zone agri­cole della Nuova Colonizzazione.

Un’improvvisa raffica di vento scosse il velivolo e Joao tornò bruscamente alla realtà, prendendo co­scienza della sua situazione. Lanciò una rapida oc­chiata all’indiano rannicchiato dietro di lui, attento, vigile… paziente come l’indio di cui aveva assunto le sembianze. La presenza di quella «cosa» era diven­tata insopportabile e Joao si trovò a dover lottare per respingere un senso crescente di repulsione.

La moderna tecnologia della capsula contrastava fortemente con quell’assurda creatura-insetto. Che diritto aveva di starsene là in quella cabina, volando tranquillamente su quella zona dove i suoi simili re­gnavano sovrani?

Joao osservava la foresta che scorreva come un enorme fiume verde, la zona da mata. Sapeva che la regione brulicava di insetti: lombrichi che scavano nella terra umida, vermi nascosti nelle radici delle savane, scarafaggi, vespe dai pungiglioni simili a frecce, mosconi consacrati al culto Xango delle fo­reste, pulci, sfecidi, braconidi, calabroni, termiti bianche, emitteri, leucischi rossi, tripetidi, formiche, pidocchi, moscerini, acari, farfalle esotiche, tarme, mantidi… e innumerevoli metamorfosi abnormi di tutte quelle specie di insetti.

Lo sapeva con certezza.

Sarebbe stata una battaglia dura da combattere a meno che non fosse già perduta in partenza.

Non devo indugiare su questi pensieri… non anco­ra, pensò. Per rispetto a mio padre.

Le mappe dell’OIE mostravano la regione in diver­se gradazioni di rosso. Attorno al rosso scorreva una linea grigia con sfumature rosa che indicava una zona dove una o due specie di insetti resistevano a ogni sorta di insetticidi e a tutte le trappole mecca­niche e alle allettanti esche dell’arsenale dei bandeirantes.

Un reticolo di carta topografica sarebbe stato posto su questa regione e ogni migliaio di ettaro quadrato ceduto in appalto a squadre di disinfesta­tori indipendenti.

Noi bandeirantes siamo una specie di ultimi pre­datori, pensò Joao. Non c’è da meravigliarsi se que­ste creature ci imitano.

Ma ne valeva veramente la pena? chiese a se stes­so. Non stiamo forse oltrepassando i limiti?

«Là», disse la creatura dietro di lui. Allungò la mano-alveare per indicare una ripida scarpata appe­na visibile nella luce grigia del mattino. Sullo sfon­do, un fitto velo di nebbia faceva pensare che nelle vicinanze ci fosse un fiume nascosto dalla vegetazio­ne della giungla.

Proprio quello che fa al caso mio, pensò Joao. Saprò ritrovare questo luogo abbastanza facilmente.

Premette con un piede la levetta di sgancio, libe­rando una densa nuvola di fumo colorato allo scopo di lasciare una traccia sul terreno e nella foresta per il raggio di un chilometro. Contemporaneamen­te iniziò il conto alla rovescia dei cinque secondi che mancavano all’esplosione e al conseguente sgan­ciamento della capsula.

La separazione avvenne con un tremendo boato e Joao ebbe l’impressione che la creatura là dietro si fosse schiacciata contro la paratia del comparti­mento posteriore.

Estrasse le semiali, alimentò i motori a razzo e virò a sinistra. Adesso il compartimento sganciato planava lentamente verso terra autocompensato dal­le pompe dei comandi idrostatici.