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Ritornerò, padre, pensò Joao. Sarai sepolto tra amici e parenti.

Bloccò i controlli della capsula e si volse per af­frontare il suo guardiano.

Il fiato gli si mozzò in gola.

La paratia posteriore brulicava di insetti raggrup­pati attorno a qualcosa di bianco giallastro che pul­sava. La camicia grigia e i pantaloni erano laceri, ma gli insetti li stavano già riparando con fili pro­dotti dalla loro secrezione. Attaccata alla superficie pulsante c’era una specie di vescica giallo scuro e più sotto… uno scheletro composto di numerosi in­setti che si articolava in modo a lui familiare.

Sembrava uno scheletro umano, ma scuro di co­lore e chitinoso.

Davanti ai suoi occhi la cosa stava riprendendo la sua forma originaria: lunghe antenne orlate di peluria che si muovevano in avanti e all’indietro e si intrecciavano; un insetto sopra l’altro, frange di zampe sottili che si accavallavano.

La cerbottana era scomparsa e la sacca di pelle giaceva in un angolo della cabina; rimanevano gli occhi della «cosa» che lo fissavano dalle loro oscu­re cavità; la bocca stava prendendo forma.

La vescica gialla si contrasse e dalla bocca ancora incompleta uscì un suono. «Devi ascoltare», grac­chiò la voce.

Joao deglutì spasmodicamente, si lanciò sui co­mandi e li sbloccò. La capsula fece un giro su se stessa.

Udì dietro di sé un ronzio assordante, un rumore che sembrava gli penetrasse in ogni parte del corpo e lo scuotesse violentemente. Sentì che qualcosa gli strisciava sul collo. La schiacciò con una mano. Im­mediatamente pensò alla fuga. In preda a una vio­lenta agitazione, scrutò il suolo sottostante alla ri­cerca di una radura per un atterraggio di fortuna. In quel mentre, vide un altro aerocarro che gli vo­lava accanto sul quale spiccava il distintivo della sua squadra.

Vide anche un gruppo di tende e le bandierine verdi e arancione dell’OIE che sventolavano di fian­co a esse. Oltre la radura si poteva intravedere la curva di un fiume.

Joao si lanciò in picchiata verso le tende.

Qualcosa gli punse la guancia. Altre cose gli stri­sciavano tra i capelli, mordendogli e pungendogli la cute. Disperatamente Joao puntò in direzione di uno spazio aperto, cercando di evitare le tende. Ades­so il vetro della cabina era brulicante d’insetti e gli impediva la visuale. Mormorando una preghie­ra, Joao tirò la barra di comando e sentì che la cap­sula perdeva quota, toccava il suolo slittando e girando su se stessa. Prima che il motore si spe­gnesse tirò la levetta a scatto per rimuovere la ca­lotta, sganciò la cintura di sicurezza e fu catapultato fuori del velivolo. Atterrò lungo disteso sul suolo della savana.

Girò più volte su se stesso, con gli occhi serrati, sentendo le punture degli insetti che come aghi ar­roventati gli trafiggevano le parti esposte del corpo. Sentì che alcune mani lo afferravano e gli spruzzavano in viso una sostanza gelatinosa per proteggerglielo.

Udì il suono di una voce a lui familiare, benché camuffata dal cappuccio, che gridava: «Correte! Da questa parte… presto!» Era Vierho.

Udì lo sparo di un fucile a gas: Whoosh!

E ancora.

E ancora.

Altre mani lo rivoltarono sul dorso. Lo spray ge­latinoso gli colpì la schiena. Una massa di liquido che odorava di neutralizzatore si riversò sul suo corpo.

Gli giunse uno strano rumore, una specie di tonfo, e una voce che esclamava: «Madre di Dio! Guarda un po’ qua!»

CAPITOLO QUINTO

Joao si drizzò a sedere, si tolse la maschera di gela­tina dal volto e si guardò intorno. Nuvole di insetti si addensavano sopra un aerocarro Irmandades.

Una voce disse: «Li hai ammazzati tutti nella cap­sula?»

«Tutto quello che si muoveva.» La risposta era roca, incerta, come quella di una persona sopraffatta dall’emozione.

«Qualcosa può essere ancora utilizzato?»

«La radio è distrutta.»

«Già. È la prima cosa che attaccano.»

Joao riconobbe i suoi Irmandades. Ne contò set­te: Vierho, Thome, Ramon, Pietr, Lon…

La sua attenzione fu attirata da un gruppetto di persone assiepate al di là dei suoi uomini; tra loro c’era Rhin Kelly. Aveva i capelli arruffati, il volto striato di sporco e lo fissava con uno sguardo vitreo.

Poi vide sulla destra la capsula del suo aerocarro, già calata in una fossa perimetrale, cosparsa di schiu­ma e di insetticida spray. Seguì con lo sguardo la linea della fossa e vide che circondava una zona di terra battuta con le tende nel mezzo. Al di là c’era la savana. Ritti di fianco a lui, c’erano due uomini in uniforme dell’OIE, con in mano delle bombole a spray.

Joao volse di nuovo l’attenzione a Rhin, cercando di ricordarla come l’aveva incontrata all’A’Chigua.

Adesso indossava una semplice uniforme da campo dell’OIE, chiazzata di fango rosso scuro. Il suo sguar­do non era affatto invitante. «Vedo che esiste una punizione ideale per questo… traditori», disse.

Joao rimase colpito dal tono isterico della sua vo­ce e impiegò un secondo per penetrare il significato delle sue parole. Traditori?

A poco a poco prese coscienza dell’aspetto lacero e inzaccherato delle uniformi dell’OIE.

Vierho si avvicinò, lo aiutò a mettersi in piedi e gli allungò un panno per togliersi di dosso la gelati­na. «Capo, che cosa sta succedendo?» chiese. «Ab­biamo ricevuto il tuo segnale, ma tu non hai risposto al nostro.»

«Ti dirò più tardi», disse con voce sommessa nel constatare l’atteggiamento ostile di Rhin e compagni nei suoi confronti. Rhin appariva prostrata e febbri­citante.

Mentre i suoi uomini gli toglievano di dosso gli in­setti morti, sentiva il dolore provocato dalle pun­ture attutirsi per l’effetto del neutralizzatore.

«Di chi è quello scheletro nella capsula?» chiese uno dell’OIE.

Prima che Joao potesse rispondere, Rhin disse: «Morte e scheletri non dovrebbero rappresentare nulla di nuovo per Joao Martinho, traditore della Piratininga!»

«Non sono altro che dei pazzi!» esclamò Vierho.

«I suoi insetti le si sono rivoltati contro, non è così?» fece Rhin con sarcasmo. «Quello scheletro, è ciò che rimane di uno di voi, eh?»

«Che cosa significano questi discorsi sugli schele­tri?» chiese Vierho.

«Il tuo capo lo sa perfettamente», rispose Rhin.

«Vuole essere così gentile da fornirmi delle spie­gazioni?» chiese Joao.

«Non è necessario», replicò lei. «Lo faranno i suoi amici laggiù.» Indicò un punto al di là della savana dove si iniziava la giungla.

Joao seguì la traiettoria del suo braccio e vide una fila di uomini con l’uniforme bandeirante che sosta­vano con aria indifferente all’ombra della giungla, circondati da nuvole di insetti. Sfilò il binocolo dal collo di uno dei suoi uomini e mise a fuoco le imma­gini. «Padre», chiamò.

Vierho si avvicinò massaggiandosi la guancia punta da un insetto.

Joao mormorò qualcosa all’orecchio di Vierho e gli passò il binocolo in modo che potesse vedere lui stesso quei volti solcati da rughe sottili, quel lucci­chio straordinario degli occhi.

«Accidenti!» esclamò Vierho.

«Ha riconosciuto i suoi amici?» chiese Rhin.

Joao la ignorò.

Vierho passò il binocolo a un altro Irmandades. I due ricercatori dell’OIE che erano rimasti in ascolto si avvicinarono e volsero lo sguardo in direzione del­le figure che spiccavano nell’ombra della giungla.

Uno dei due si fece il segno della croce.

«Che cosa c’è in quella fossa?» chiese Joao.

«Gelatina», rispose l’uomo. «Tutto ciò che era ri­masto per neutralizzare gli insetti.»

«Non li fermerà», asserì Joao.