Gli era rimasto addosso l’odore del gas velenoso. Era una prova che non si aspettava. Non l’avevano preparato a quel veleno; era pronto ad affrontare le radiazioni, le vibrazioni soniche e i vecchi prodotti chimici… ma non il gas velenoso.
Come uscì nella strada, la luce del sole lo investì. Svoltò a sinistra e percorse un vicolo fiancheggiato da bancarelle di frutta dove grassi mercanti contrattavano coi clienti o se ne stavano in attesa con aria vigile dietro le loro mercanzie.
Sembrava che la frutta gli facesse cenni allettanti, promettendo rifugio ad alcune parti del suo corpo, ma il suo subconscio conosceva la vacuità di quel pensiero. Facendo appello alle poche forze che gli rimanevano, scansò un gruppetto di compratori e avanzò fra le bancarelle.
«Vuoi comprare arance fresche?» Una mano scura e untuosa gli avvicinò due arance al viso. «Arance fresche giunte dalla campagna, mai state a contatto di un insetto.»
Cercò di evitare la mano, ma l’odore delle arance era irresistibile.
Allontanatosi dalle bancarelle, svoltò in un’angusta strada laterale al termine della quale vide in lontananza, alla sua sinistra, l’allettante vegetazione dell’aperta campagna, la zona libera oltre la città.
Si diresse verso il verde, accelerando l’andatura e calcolando mentalmente il tempo che aveva ancora a disposizione. Sapeva che presto sarebbe accaduto. Aveva gli abiti intrisi di veleno, ma l’aria pura filtrava attraverso il tessuto… il pensiero di una probabile vittoria fungeva da antidoto.
Possiamo ancora farcela!
Il verde si faceva sempre più vicino, alberi e felci allineati lungo la sponda del fiume. Udì il gorgoglio dell’acqua che scorreva, respirò l’odore della terra bagnata. Vide un ponte brulicante di traffico pedonale che giungeva dalle strade confluenti.
Non c’era altra via… si unì alla calca, evitando per quanto possibile qualsiasi contatto. I legamenti delle gambe e della schiena cominciavano a cedere, sapeva che sarebbe bastato un semplice urto, un eventuale scontro per rimuovere interi lembi di pelle.
Superata la prova del ponte, vide alla sua destra un sentiero battuto che dalla strada scendeva fino al fiume. Si mosse in quella direzione, andando a sbattere contro un uomo che assieme a un altro trasportava un maiale imprigionato in una rete. Un pezzo di pelle gli si staccò dalla coscia destra e se la sentì scendere giù per la coscia, attraverso i pantaloni.
Il tizio col quale si era scontrato per poco non lasciò cadere il maiale. «Attento!» urlò.
«Maledetti ubriaconi!» fece eco il suo compagno.
I due uomini, attratti dai grugniti e dalle contorsioni del maiale, si girarono verso la bestia.
Approfittò di quell’attimo di distrazione per allontanarsi e, imboccato il sentiero battuto, si trascinò verso il fiume.
In quel punto, l’acqua ribolliva per l’effetto dell’aerazione proveniente dai filtri della chiusa, provocando una densa schiuma in superficie.
Alle sue spalle uno dei due uomini disse: «Non credo che fosse ubriaco, Carlos. Aveva la pelle secca e calda. Forse stava male».
Udì le loro parole e accelerò l’andatura. Il pezzo di pelle mimetica si era staccato del tutto ed era scivolato fino al polpaccio. I muscoli delle spalle e della schiena si smembravano, minacciando il suo equilibrio.
Il sentiero scorreva attorno a un cumulo di terriccio e, fiancheggiato da una parete di felci e cespugli, si inoltrava in una galleria. Era sicuro di trovarsi lontano dalla vista dei due uomini. Strinse i pantaloni nel punto in cui la pelle si staccava dalla gamba e attraversò lentamente la galleria.
Giunto all’uscita, scorse la sua prima ape abnorme. Era morta, essendo passata attraverso i filtri di aerazione sprovvista di difesa contro i gas velenosi. L’ape era un tipo di farfalla dalle ali iridescenti con sfumature gialle e arancione. Giaceva su una foglia verde illuminata da un raggio di sole.
Proseguì il suo lento cammino dopo essersi impresso nella memoria la forma e i colori dell’insetto. La sua specie aveva considerato le api come un possibile mezzo, tuttavia c’erano molti inconvenienti. Un’ape non poteva comunicare con gli esseri umani e questi ultimi dovevano immediatamente ascoltare la voce della ragione, altrimenti ogni sorta di vita sarebbe cessata.
Gli giunse il fruscio di qualcuno che avanzava di corsa giù per il sentiero. Passi pesanti calpestavano il terreno.
Sono inseguito?
Perché? Sono stato scoperto?
Una sensazione di panico si impadronì di lui e al tempo stesso gli procurò una nuova carica di energia. Ma era costretto a procedere sempre più lentamente. Presto la sua sarebbe stata soltanto una lenta e strisciante avanzata. I suoi occhi scrutavano fra il verde alla disperata ricerca di un nascondiglio.
Una sottile apertura oscurava la fitta parete di felci alla sua sinistra. Piccole impronte di piedi conducevano fino all’entrata… dei bambini, pensò. Si fece strada fra le felci e si trovò in un viottolo che fiancheggiava l’argine del fiume. Due aeroplanini, rossi e blu, giacevano abbandonati per terra. Barcollando, premette un piede sul terrapieno.
Il viottolo portava vicino a una parete di terriccio scuro ornata di piante rampicanti e, curvando bruscamente, terminava all’imboccatura di una caverna poco profonda. Altri giocattoli giacevano abbandonati nell’oscurità della caverna.
Si piegò sulle ginocchia e prese a strisciare fra i giocattoli verso quella sospirata frescura, quindi rimase lì ad aspettare.
D’un tratto, il rumore dei passi si fece più distinto ed egli poté udire delle voci.
«Si è diretto verso il fiume. Credi che avesse intenzione di buttarsi?»
«Chi lo sa? Sono sicuro però che stesse male.»
«Guarda qui! Qualcuno deve essere passato di qui di recente!»
Le voci gli giungevano sempre più confuse, mescolate al gorgoglio dell’acqua sottostante.
I due uomini si stavano allontanando giù per il sentiero. Non avevano scoperto il suo nascondiglio. Perché l’avevano inseguito? Sapeva di non aver fatto male a quell’uomo. Sicuramente non nutrivano sospetti nei suoi confronti.
Comunque non era il momento di fare congetture. Si armò di coraggio per portare a termine il suo compito. Mise in azione tutte le sue energie e prese a scavare il terreno. Scavò sempre più in profondità, gettando la terra alle sue spalle e fuori della caverna per simulare un crollo delle pareti. Scavò dieci metri in profondità prima di fermarsi.
La sua riserva di energie era sufficiente per lo stadio successivo. Si girò sulla schiena e cominciò a disseminare le parti morte della schiena e delle gambe deponendo l’ape regina e il suo sciame sul terriccio al di sotto della sua chitina. Dagli orifizi della coscia, fuoriusciva la secrezione bavosa, il rivestimento verde, che si sarebbe indurita in una corazza protettiva.
Aveva vinto: le parti essenziali erano sopravvissute.
Ora la cosa più importante era il tempo, circa venti giorni per poter accumulare nuove energie, affrontare la metamorfosi e disperdersi.
Presto ci sarebbero stati migliaia di esseri come lui, ognuno con il suo rivestimento mimetico e un certificato di identità; ognuno con un aspetto umano.
Tutti uguali a lui.
Ci sarebbero stati altri posti di controllo, ma non così severi; altre barriere, ma meno numerose.
Tale duplicato dell’essere umano si era dimostrato soddisfacente. La suprema integrazione della sua specie aveva scelto bene. Aveva imparato molto studiando la natura degli schiavi nell’altopiano sertao. Ma era così difficile capire le creature umane. Persino quando veniva loro concessa una libertà limitata, era quasi impossibile comunicare con loro. La loro suprema integrazione escludeva qualsiasi possibilità di contatto.
E rimaneva sempre insoluta la questione principale: come poteva una qualsiasi suprema integrazione permettere il verificarsi di una catastrofe che stava per colpire l’intero pianeta?