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Dobbiamo trovarle! pensò il Cervello.

I problemi che potevano sorgere da un’azione fuo­ri del suo controllo lo sgomentavano. I simulacri erano un errore. Molte unità simili fra loro avreb­bero attirato l’attenzione, il che si sarebbe rivelato disastroso.

Il fatto che i simulacri fossero inoffensivi, pro­grammati in modo da esercitare una violenza li­mitata non aveva significato nell’attuale circostanza. Che volessero soltanto il permesso di parlare e ragio­nare con i capi umani… ora questo piano serviva a creare solo del pathos.

Il Cervello ripensò con amarezza alle parole del­l’umano di nome Chen-Lhu: «Sconfitta… suolo ste­rile». Questo Chen-Lhu aveva suggerito un sistema per risolvere il problema che avevano in comune, ma quali erano le sue vere intenzioni? Ci si poteva fidare?

Il Cervello interruppe quei pensieri e diresse una domanda al suo sciame: «Quali umani cercheran­no di mettersi in salvo?» Sapeva che era necessario porre particolare attenzione a ogni dettaglio.

L’orientamento dell’alveare tendeva a ignorare i dati individuali. Questa inclinazione era stata l’ori­gine degli errori commessi con i simulacri umani.

Sapeva che all’apparenza il suo problema sem­brava semplice. Ma un’analisi profonda faceva sor­gere le complicazioni delle pressioni emotive. Emo­zioni! Emozioni! La ragione aveva così tante bar­riere da superare!

I messaggeri avevano verificato i dati ricevuti da­gli appostamenti di ascolto, e ora ne riportavano i nomi: «Rhin Kelly, la regina nascosta, e gli uma­ni di nome Chen-Lhu e Joao Martinho».

Martinho, pensò il Cervello, l’umano giunto con l’altra metà dell’aerocarro. Ciò dimostrava la com­plicata affinità del suo alveare con quello degli umani. Poteva esistere un valore in quel rapporto.

Gli insetti, allevati con un coefficiente ripetitivo atto a garantire contatti, rinnovarono la loro pre­cedente domanda.

«Che tipo di contrattacco è richiesto?»

«Messaggio a tutte le unità», fece il Cervello. «Ai tre del veicolo sarà permesso di mettersi in salvo nel fiume. Esercitate una certa resistenza in modo che la nostra opposizione alla fuga sia evidente. De­vono essere seguiti da gruppi di azione in grado di sbarazzarsi di loro qualora si riveli necessario. Non appena i tre avranno raggiunto il fiume, soppri­mete quelli che rimangono.»

Le unità dei messaggeri si raggrupparono sopra il Cervello per imprimere il messaggio con motivi di danza. Decollarono in gruppi compatti, lancian­dosi attraverso l’imboccatura della caverna.

Per pochi minuti il Cervello rimase ad ammirare i colori, quindi allentò gli impulsi sensoriali e si ac­cinse a valutare il problema della prevalente in­compatibilità delle proteine.

Dobbiamo produrre immediati e logici vantaggi che gli umani non possano fare a meno di ricono­scere, pensò il Cervello. Se siamo in grado di dimo­strare la drammaticità di tali vantaggi, riusciremo ancora a far capir loro che l’interdipendenza si svi­luppa in senso circolare, è una matassa imbrogliata, una questione di vita o di morte.

Hanno bisogno di noi e noi di loro… ma l’obbligo di fornire le prove è esclusivamente nostro. E se dovessimo fallire, allora questo sarebbe veramente suolo sterile.

«Presto sarà buio, capo», disse Vierho. «Allora te ne andrai.» Aprì la calotta della capsula e si sporse all’interno.

Joao si trovava a un passo dietro di lui, ancora debole e tormentato da fitte lancinanti alla gamba sinistra causate dal trattamento energetico cui si era sottoposto.

«Ho sistemato viveri e altri rifornimenti d’emer­genza qui sotto il sedile, capo. Ho riempito anche il cassone del retro. Hai a disposizione due fucili a gas con venti caricatori supplementari e una cara­bina. Mi dispiace, ma per la carabina sono rimaste poche munizioni. Sotto l’altro sedile c’è una dozzi­na di bombe schiumogene e là nell’angolo ho fissa­to una serie di bombole a spruzzo. Sono cariche al massimo.» Vierho si drizzò e lanciò un’occhiata alle tende, quindi aggiunse a voce bassa: «Capo, non mi fido del dottor Chen-Lhu. L’ho sentito parlare, quando credeva di morire. Ho l’impressione che…»

«È un rischio che dobbiamo correre», lo rassi­curò Joao. «Senti, vorrei che tu o uno degli altri prendeste il mio posto.»

«Non ne voglio più sentir parlare, capo.» Vierho abbassò nuovamente il tono della voce. «Capo, cammina vicino a me, come se stessimo per salu­tarci.»

Joao esitò un attimo, quindi gli si accostò. Sentì qualcosa di metallico e di pesante scivolargli nella tasca dell’uniforme e sussurrò: «Che cos’è?»

«Apparteneva alla mia bisnonna. È una rivoltel­la, una Magnum 475. Ha cinque pallottole nel ca­ricatore e qui ne ho un’altra dozzina. Non è quello che si dice un’arma ultramoderna, ma contro gli uomini fa ancora il suo dovere.»

Joao commosso deglutì, mentre gli occhi gli si inumidivano di lacrime. Tutti gli Irmandades sape­vano che il Padre si portava sempre dietro quel vec­chio schioppo e che per nessuna ragione al mondo se ne sarebbe mai privato. Il fatto che lo facesse ora significava che era convinto di morire lì.

«Che Dio ti protegga, capo.»

Joao si volse e guardò verso il fiume che scorre­va a cinquecento metri dalla savana. Riusciva a mala pena a intravedere la spiaggia che si estendeva oltre la sponda opposta e la fitta vegetazione illu­minata dai raggi del sole pomeridiano. Laggiù la giungla si elevava in ondate di colori, i suoi marcati contorni spiccavano nella luce uniforme. Varietà di colori che, da un verde scuro lungo la fascia inferiore, sfumavano in un verde salvia in quella supe­riore, intramezzato da chiazze gialle, rosse e ocra. Al di sopra di quelle foglie mosse da una leggera brezza, torreggiava un albero candello pieno di nidi di pipistrelli che facevano tremare i rametti più sottili. A sinistra, un groviglio di liane oscurava una parete di alberi mata-polo.

«La capsula ha solo quindici minuti di autono­mia?» chiese Joao.

«Forse qualcosa di più, capo.»

Se contiamo solo sulla corrente del fiume non ce la faremo mai, pensò Joao.

«Capo, a volte spira un forte vento lungo il fiu­me», fece Vierho.

Maledizione, non si aspetterà che noi andiamo in acqua con quell’aggeggio, pensò Joao. Fissò Vierho e notò sul suo viso tracce di profonda stanchezza.

«Quel vento potrebbe causarvi seri inconvenien­ti, quindi ho utilizzato un gancio della capsula per costruire un aggeggio che stia sotto il pelo del­l’acqua e funga da draga. Si chiama ancora marina e manterrà il muso della capsula contro vento.»

«Ottima idea, Padre.»

E si domandava: Perché recitiamo questa farsa? Siamo tutti destinati a morire qui… qui o sotto le acque del fiume.

Un fiume che si estendeva per sette od ottocento chilometri, con rapide, baratri, cascate, e la stagio­ne delle piogge era imminente. Presto si sarebbe trasformato in un inferno torrenziale. E se anche si fossero salvati, c’erano sempre i nuovi tipi di in­setti, le creature che spruzzavano acido e veleni so­fisticati.

«È meglio che tu stesso gli dia un’altra occhiata, capo», così dicendo Vierho indicò la capsula.

Sì, ha ragione, servirà a distrarmi, a non farmi pensare, considerò Joao. C’era già stato una volta, ma un’altra occhiata non sarebbe stata inutile. Do­po tutto le loro vite dipendevano da quell’aggeggio… almeno per il momento.

Le nostre vite!

Forse c’era una via di scampo, almeno un barlu­me di speranza. In fondo quella era la capsula di un aerocarro della giungla, poteva esser chiusa ermeticamente ed era studiata in modo da affrontare qualsiasi assalto.