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Lei scosse il capo, mentre un brivido le correva lungo la schiena. «No.»

«Allora approfitto io dell’occasione», disse Chen-Lhu. Aprì il portello e si lasciò scivolare sul galleg­giante, quindi richiuse il portello.

Rhin era convinta che l’avesse solo accostato per poter orecchiare attraverso la fessura. Guardò dritto davanti a sé seguendo la scia argentea del fiume. La capsula sembrava sospesa in una volta celeste, dove l’aria immobile si gonfiava lentamente, per l’effetto del caldo, fino a scoppiare.

Joao la guardò. «Tutto bene?»

A meraviglia! pensò lei.

«C’è qualcosa che non va», affermò lui. «Vi ho sentiti discutere mentre ero là fuori. Non sono riu­scito ad ascoltare quello che vi siete detti, ma lei parlava in tono collerico.»

Rhin cercò di deglutire, ma aveva la gola secca. Chen-Lhu stava sicuramente ascoltando. «Io… lui mi stava prendendo in giro.»

«La stava prendendo in giro?»

«Sì.»

«E per quale motivo?»

Rhin girò il capo e studiò le linee morbide delle colline che si ergevano alla sua destra; intravide in lontananza la cima innevata di una montagna con una corona scura di cenere vulcanica. La serenità di quella montagna pervase i suoi sensi.

«È lei la causa.»

Joao abbassò lo sguardo, stupito nel constatare l’imbarazzo che quelle parole provocavano in lui.

In quel silenzio, Rhin prese a cantare a bocca chiu­sa. Aveva una bella voce, e lo sapeva: gutturale, cal­da. La voce era una della sue migliori prerogative.

Joao riconobbe la canzone e si domandò perché mai avesse scelto proprio quella. Era un canto fune­bre indigeno, una tragedia di Lorca adatta per chi­tarra:

Arresta la tua frusta, o Morte, Non anelo il tuo mare oscuro. Non sono solito lamentarmi, né implorare, Ma te lo chiedo come uno che ha svolto la tua stessa opera. Questo fiume che è tutta la mia vita, Lascia che scorra tranquillo, Perché il mio amore ha gli occhi grigi, Ed è difficile dire addio.

Rhin l’aveva solo canticchiata a bassa voce, ma le parole erano lì, nell’aria.

Joao guardava alla sua sinistra.

In quel punto il fiume era fiancheggiato da file di manghi, il cui fogliame verde scuro era interrotto dal verde più sfumato del vischio tropicale e delle fo­glie pennate delle palme chonta. Al di sopra dei trat­ti diritti del fiume, si libravano due avvoltoi urubu dalle piume bianche e nere. Erano sospesi nel cielo azzurro dalle sfumature acciaio brunito, come dipin­ti su uno sfondo irreale.

L’apparente tranquillità della scena non faceva na­scere in Joao inutili illusioni. Si domandò se quella fosse la tranquillità cui si riferiva la canzone.

Uno stormo di tanagri attrasse la sua attenzione. Volavano in alto sbattendo ritmicamente le lunghe ali di un azzurro scintillante, per poi tuffarsi nel folto della giungla che sembrava inghiottirli.

Sulla sponda di sinistra, il filare di manghi lascia­va il posto a un sentiero erboso che scorreva su un argine di terra rosso scuro costellato di piccole ca­vità.

Il portello si aprì e Joao udì Chen-Lhu arrampicar­si all’interno della cabina. Udì anche il rumore dei morsetti che venivano ricollegati.

«Johnny, ho visto qualcosa muoversi fra gli al­beri dietro quel prato», riferì Chen-Lhu.

Joao concentrò lo sguardo sulla scena. Sì! Qual­cosa fra l’ombra degli alberi… numerose figure che sembravano seguire l’andatura della capsula.

Joao sfilò il fucile a gas che aveva infilato in una fessura del sedile.

«È un tiro troppo lungo», osservò Rhin.

«Lo so. Voglio solo metterli sull’avviso, mantener­li a distanza.»

Armeggiò intorno alla sicura, ma, prima ancora di riuscire a toglierla, le figure lasciarono la zona in ombra per portarsi sulla banchina erbosa illuminata dal sole.

Joao rimase senza fiato.

«Madre di Dio, Madre di Dio…» mormorò Rhin.

Era un gruppo compatto, allineato lungo la spiag­gia. Avevano un aspetto umano, quantunque apparis­sero come esemplari giganti di alcune specie di in­setti: mantidi, scarafaggi, ogni tipo di insetto prov­visto di proboscide pelosa. Quelle specie di umani avevano le sembianze tipiche degli indiani, e gran parte di loro erano simili ai due che avevano rapito Joao e suo padre.

Ma sparsi qua e là, leggermente staccati dal grup­po, c’erano degli esemplari particolari, ben distin­ti: là, uno identico al prefetto, il padre di Joao; accanto a lui… Vierho! e poi via via… gli altri uomini del campo.

Joao infilò il fucile nell’oblò.

«No!» esclamò Rhin. «Aspetti. Guardi i loro oc­chi come sono vitrei. Potrebbero essere i nostri ami­ci… sotto l’effetto di qualche droga o…» si interruppe.

O peggio ancora, pensò Joao.

«È probabile che siano tenuti in ostaggio», fece Chen-Lhu. «L’unico modo per scoprirlo… sarebbe di sparare a uno di loro.» Si alzò e sollevò il co­perchio del cassone. «Ecco una carabina…»

«Non dica sciocchezze!» esclamò Joao. Ritirò il fucile e richiuse l’oblò.

Chen-Lhu contrasse le labbra. Come sono poco realistici questi latini, pensò. Mise al suo posto la carabina e sedette. Si sarebbe potuto scegliere uno di loro come bersaglio e ottenere così valide infor­mazioni, ma forse non era il caso di precipitare le cose. Non ora.

«Non so a voi, ma a me è sempre stato insegnato di non uccidere i propri amici», disse Rhin.

«Naturalmente, Rhin, naturalmente», approvò Chen-Lhu. «Ma sono poi i nostri amici?»

«Fino a quando non ne sarò sicura…»

«Esatto!» disse Chen-Lhu. «E come potremo ac­certarcene?» Indicò in direzione delle figure, ora alle loro spalle, che si potevano scorgere fra gli al­beri e i rampicanti ripresi a fluire lungo la sponda. «Anche quella insegna qualcosa, Rhin… la giungla laggiù. Dovresti imparare anche la sua lezione.»

Doppio senso, doppio senso, pensò Rhin.

«La giungla è una scuola di pragmatismo, di ve­rità assolute. Vuoi chiedere alla giungla che cosa ne pensa del bene e del male? La risposta sarà una sola: ‘Ciò che porta al successo è bene’.»

Mi sta dicendo, in modo subdolo, di esercitare il mio fascino ai danni di Joao Martinho, mentre il poveretto non si è ancora ripreso dal suo stato di shock, d’altronde legittimo, pensò Rhin. Pericoli, violente emozioni e orrore hanno contribuito a crea­re una tale conseguenza.

Scosse il capo, mentre diceva fra sé: Con quale coraggio posso fargli ancora del male?

«Se quelli erano veramente indiani, non capisco perché abbiano macchinato quella messinscena. No, non erano veri indiani, altrimenti, ci avrebbero mi­nacciati dicendo: ‘Ora tocca a voi’. Ma quelle crea­ture… non sappiamo come e cosa pensino.»

Un profondo silenzio calò nella capsula: un isola­mento allucinante reso ancor più opprimente dal caldo e dal flusso ipnotico della vegetazione lungo la sponda.

Chen-Lhu, sdraiato sul cassone, pensava: Lascerò che il caldo e l’inattività facciano il loro effetto, a mio vantaggio.

Joao si fissava le mani. Non si era mai trovato in una situazione in cui sia la paura sia l’ozio lo co­stringessero a una analisi introspettiva. Quell’espe­rienza lo terrorizzava e l’affascinava al tempo stesso.

La paura è il castigo inferto dalla coscienza che si sente costretta a un esame profondo, pensò Joao. De­vo fare qualcosa. Ma che cosa? Dormire, ecco. Ma temeva anche il sonno e i sogni che poteva fare, si­curamente inerenti al dramma che stava vivendo.

Poter avere il cervello vuoto, scevro da qualsiasi incubo! pensò.

Sentiva che in qualche luogo nel suo passato aveva raggiunto un apice di splendore privo di qualsiasi complicazione, un luogo dove non esistevano incer­tezze. Azione… dinamismo… impeto: su tutto questo si era basata la sua vita. Ora, era tutta lì aperta al­l’introspezione, alla riflessione e alla riprova. Ma sen­tiva probabile il verificarsi di una svolta decisiva nel­la sua introspezione, che celava in lui ricordi che po­tevano ingoiarlo.