«Nessuna ragazza particolare?» insistette Rhin.
Perché fa così? si domandò Chen-Lhu. Sta forse cercando delle giustificazioni, delle ragioni per comportarsi con lui come vorrebbe?
«Sono stato molto occupato», disse Joao.
«Ne sono convinta», fece lei.
«Che cosa vuoi dire?»
«Be’… nella zona Verde ci sono ragazze mature come il mango. Com’è la tua ragazza?»
Joao alzò le spalle, mentre le spostava la testa per guardarla in volto, ma lei oppose resistenza.
Sollevò lo sguardo verso un punto della mascella di Joao in cui non cresceva la barba. Ha sangue indiano, pensò. Niente barba: sangue indiano. «È bella?» insistette ancora.
«Ci sono molte donne belle», rispose lui.
«Scommetto che è uno di quei tipi bruni, ben dotati», disse lei. «L’hai portata a letto?»
Joao pensò: Che cosa vuol dire questo? Che siamo tutti uguali?
«Sei un vero signore, ti rifiuti di rispondere», continuò Rhin. Si rizzò, ritornò nel suo cantuccio domandandosi con rabbia la ragione per cui aveva parlato così. Perché mi tormento? Che cosa voglio? Voglio forse tenere Joao Martinho tutto per me? Che vada all’inferno!
«In questo paese si è molto severi con le ragazze», disse Chen-Lhu. «Un sistema ancora patriarcale.»
«Non sei mai stato umano nella tua vita, Travis?» chiese Rhin. «Neanche per una volta?»
«Smettila!» esclamò con rabbia Chen-Lhu, e pensò: Questa puttanella! Come osa parlarmi così?
Ah, pensò Joao. Rhin ha toccato il tasto debole.
«Che cosa ti ha reso così inumano, Travis?» chiese Rhin.
Malgrado quelle parole, Chen-Lhu riuscì a controllarsi e si limitò a dire: «Hai la lingua lunga, mia cara. Peccato che il cervello non sia alla sua altezza».
«È una risposta che non rientra nel tuo stile, Travis», commentò lei sorridendo a Joao.
Ma Joao, che aveva notato il tono alto della loro voce, ripensò a Vierho, il Padre, che sentenziava: «Una persona tende ad alzare la voce quando si sente sola e perché si è staccata da tutto quello che aveva nella vita. Ma non importa quanto si odia la vita, perché la si ama comunque. È come un calderone che bolle con dentro tutto ciò che si deve avere, ma che scotta le labbra».
D’un tratto Joao si sporse in avanti, afferrò Rhin per le braccia e la baciò, stringendola forte a sé. Solo dopo un breve attimo di esitazione, le labbra di lei, calde e tremanti, risposero al bacio. Subito dopo, Joao si staccò, la sospinse sul sedile e si acquattò nuovamente al suo posto.
Non appena riprese fiato, Rhin disse: «Si può sapere che cosa ti ha preso?»
«In ognuno di noi si nasconde un temperamento animalesco», fece Joao.
Prende le mie difese? si chiese Chen-Lhu, rizzandosi come un fuso. Non so cosa farmene di simili difese.
Ma Rhin scoppiò a ridere, soffocando la collera di Chen-Lhu, e si protese in avanti per accarezzare la guancia di Joao. «Non l’hai fatto solo per quello, vero?»
E Chen-Lhu pensò: Sta solo facendo il suo dovere. Come recita bene! È un’attrice nata. Sarebbe un peccato doverla uccidere.
CAPITOLO NONO
Come sono inclini a comportamenti incoerenti, questi umani, pensò il Cervello. Persino di fronte a pressioni terribili, litigano, amoreggiano e danno troppa importanza a frivolezze.
I messaggi giunsero attraverso la pioggia e la luce del sole che si alternavano all’esterno della caverna. Adesso non c’era più alcuna esitazione nelle direttive del Cervello; la decisione essenziale era stata presa: «Catturate oppure uccidete i tre umani nella gola del fiume; risparmiate le teste ‘in vivo’, se è possibile».
Ciononostante i rapporti continuavano ad affluire perché il Cervello aveva ordinato: «Tenetemi informato sulle loro conversazioni».
Tutto quel parlare di Dio, pensava il Cervello. È possibile che un essere del genere esista?
E il Cervello rifletté che senza dubbio le doti naturali degli umani implicavano un alone di grandezza che esaltava la banalità delle loro azioni.
È possibile che la banalità sia una specie di codice? si domandava il Cervello. Ma come può essere…? A meno che in quella incoerenza emotiva, in quei discorsi su Dio ci sia molto di più di quello che appare in superficie.
Il Cervello aveva cominciato a muoversi nel campo della razionalità come un pragmatista ateo. Ma adesso nei suoi calcoli cominciavano a farsi strada alcuni dubbi, e il Cervello classificava il dubbio tra le emozioni.
Eppure devono essere fermati, pensò il Cervello. Devono essere fermati a tutti i costi. Il problema è troppo importante… anche per questo affascinante terzetto. Se sono ormai perduti, cercherò di piangerli.
Rhin aveva la sensazione di trovarsi in un serbatorio surriscaldato, al centro del quale galleggiava la capsula. La cabina era diventata una cella infernale: l’afa mista a umidità le toglieva il respiro. La sensazione sgocciolante della traspirazione, l’odore dei corpi troppo vicini, l’onnipresente tanfo di muffa, tutto questo la logorava e la tormentava fino al limite della sopportazione. Non si udiva alcun animale muoversi e gridare dalle sponde che scorrevano di fianco a loro.
Soltanto un occasionale insetto volteggiante sulla loro rotta le riportò alla memoria le creature nascoste nelle ombre della giungla.
Se non fosse per gli insetti, pensò. Maledetti insetti! E il calore… maledetto calore!
D’un tratto fu colta da un attacco isterico e si mise a urlare: «Non si può fare qualcosa?» Cominciò a ridere come una folle.
Joao la prese per le spalle e la scosse finché lei si abbandonò a una crisi di pianto.
«Vi prego, vi prego, fate qualcosa», supplicava.
Joao le parlò con voce controllata, nel tentativo di darle conforto. «Cerca di calmarti, Rhin.»
«Quei dannati insetti», disse lei.
La voce di Chen-Lhu la rimproverò dal fondo della cabina. «Fammi il piacere di non dimenticare, dottor Kelly, che sei un entomologo.»
«Forse per questo mi sento il cervello pieno di mosche», disse lei. Trovò la sua battuta divertente e ricominciò a ridere. Una scossa del braccio di Joao la fece smettere. Lei gli prese le mani e disse: «Va meglio, adesso, molto meglio. È colpa del caldo».
Joao la guardò negli occhi. «Sei sicura?»
«Sì.» Si liberò della stretta delle sue braccia, si sedette in un angolo e guardò fuori del finestrino.
Lo scorrere veloce delle sponde attirava il suo sguardo in modo ipnotico: due movimenti che si fondevano. Era come il tempo (l’immediato passato mai completamente dimenticato, nessun punto fisso da cui inizia il futuro), tutto quanto mescolato in un unico silenzioso passaggio, in un unico periodo ininterrotto.
Come mai ho scelto questa professione? si domandava.
Come in risposta alla sua domanda, le si proiettò nella memoria l’intera sequenza di un fatto accadutole durante la fanciullezza e in seguito dimenticato. Aveva sei anni ed era il periodo che suo padre aveva trascorso nell’America occidentale per scrivere un libro su Johannes Kelpius. Avevano abitato in una vecchia casa di mattoni, le cui mura erano piene di nidi di formiche alate. Suo padre aveva mandato a chiamare un uomo tuttofare per bruciare i nidi, e lei si era messa in disparte a osservare. Ricordava l’odore acuto del cherosene, l’improvvisa fiammata gialla nella luce del sole seguita da nuvole di fumo nero e il vortice di insetti svolazzanti dalle ali color ambra che la avviluppava, freneticamente.
Era corsa a rifugiarsi in casa, urlando, mentre le creature alate le strisciavano intorno, le si aggrappavano addosso. In casa qualcuno l’aveva presa e portata a viva forza nella stanza da bagno e una voce piena d’ira le aveva ordinato: «Togliti quegli insetti di dosso! Che idea, portarli dentro casa. Vedi di non lasciarne uno solo sul pavimento. Uccidili e gettali nel gabinetto».