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Nel ricordare quella scena, il giovane capì che racchiudeva il problema di Chen-Lhu. Qualcosa o qualcuno ha intrappolato quell’uomo in un angolo, pensò.

«Adesso vorrei dormire», disse Chen-Lhu. «Sve­gliatemi a mezzanotte. E, per favore, non distraetevi e rimanete in ascolto.»

Va’ al diavolo, disse fra sé Rhin. E scavalcò il se­dile per gettarsi tra le braccia di Joao, incurante del rumore che faceva.

«Dobbiamo schierare sotto le rapide una parte delle nostre forze», ordinò il Cervello, «nel caso che gli umani sfuggano alla rete come in precedenza. Questa volta non devono avere scampo». E qui il Cervello sottolineò il simbolo della minaccia alla sopravvivenza del superalveare per incitare i mes­saggeri e i gruppi di azione alla estrema vigilanza e aggressività.

«Istruite accuratamente coloro che si dimostrano i meno implacabili», ordinò il Cervello. «Se il vei­colo riesce a sfuggire alla nostra rete e a superare le rapide, tutti e tre gli umani devono essere  sop­pressi.»

I messaggeri dalle ali dorate danzarono la loro conferma sul soffitto, quindi svolazzarono fuori del­la caverna nella luce grigia che precedeva il calare della notte.

Questi tre umani sono dei personaggi interessanti, persino istruttivi, pensò il Cervello, ma adesso de­vono morire. Abbiamo altri umani, dopo tutto… e le emozioni non devono figurare fra le necessità ra­zionali.

Ma questi pensieri non fecero altro che aumentare gli stimoli emotivi che il Cervello aveva da poco as­similato e allarmarono gli insetti infermieri, sempre pronti a rimediare alle insolite domande del loro assistito.

Subito dopo il Cervello allontanò il pensiero dei tre umani sul fiume e cominciò a preoccuparsi della sorte dei simulacri rimasti al di là delle barriere.

La radio non aveva trasmesso la notizia della sco­perta dei simulacri… ma ciò, in realtà, non signifi­cava nulla. Simili notizie dovevano essere taciute. I simulacri sarebbero riapparsi solo dopo essere sta­ti individuati dai loro simili e avvertiti (e ciò do­veva essere fatto al più presto). Il pericolo era gran­de e non rimaneva molto tempo.

L’agitazione del Cervello fece accorrere i suoi as­sistenti che prontamente gli somministrarono dei narcotici. Il Cervello cadde in un dormiveglia letar­gico e sognò di essersi trasformato in una creatura simile agli umani e di percorrere un sentiero imma­ginario con un fucile in mano.

Persino in sogno il Cervello si agitò per tema che il «gioco» gli sfuggisse. E poiché qui gli insetti infer­mieri non potevano soccorrerlo, l’agitazione del Cer­vello continuò.

Joao si svegliò all’alba e trovò il fiume avvolto in un manto di nebbia. Si sentiva le membra rigide e intorpidite e i suoi pensieri erano confusi a causa di una fastidiosa sensazione, sfocata come la nebbia sul fiume. Il cielo aveva il colore del platino.

Emerse in lontananza un’isola celata dal velo spet­trale della nebbia. La capsula, trasportata dalla cor­rente, si mosse velocemente superando cataste di tronchi, cespugli sommersi ed erba piegata a valle che vibrava con la corrente.

Joao si accorse che la capsula si inclinava sul fianco destro. Sapeva di dover uscire a pompare il galleggiante e sapeva di aver sufficiente energia per fare quel lavoro, ma non riusciva a trovare la for­za per muoversi.

«Quando ha cessato di piovere?» risuonò la voce di Rhin.

Chen-Lhu rispose dal fondo della cabina: «Appe­na prima dell’alba». Diede alcuni colpi di tosse, poi disse: «Ancora nessuna traccia dei nostri amici, non è vero?»

«Ci stiamo inclinando a destra», osservò Rhin.

«Me ne sono accorto», fece Chen-Lhu. «Vado fuo­ri io, Johnny. Credo che si debba introdurre il tu­bo della bombola nel galleggiante e azionare l’im­pugnatura a leva.»

Dentro di sé Joao gli fu grato per essersi offerto di compiere quel lavoro.

«Allora, Johnny?»

«Sì… è tutto quello che deve fare», rispose il giovane. «Il foro d’ispezione del galleggiante è prov­visto di una semplice chiusura a scatto.» Si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. Udì Chen-Lhu usci­re dal portello.

Rhin guardò Joao e notò sul suo volto i segni del­la stanchezza. Gli occhi chiusi cerchiati di scuro sembravano le orbite di un teschio.

Il mio ultimo amante, pensò. Morte.

Il pensiero la confuse e si meravigliò di non pro­vare alcun sentimento verso l’uomo che durante la notte l’aveva amata con passione. Una tristezza post coitum si era impadronita di lei e adesso Joao era semplicemente una particella della realtà che la circondava; dopo averla sfiorata per puro caso, si era fermato a dividere con lei un momento di esplosiva intensità.

Non c’era amore in quel pensiero.

Nemmeno odio.

I suoi sentimenti adesso erano asessuati e clinici come al solito. Il rapporto durante la notte era sta­ta una reciproca esperienza, ma il mattino l’aveva trasformato in qualcosa di insipido.

Si volse e seguì con lo sguardo la corrente del fiu­me.

La nebbia stava dileguandosi. Intravide, a circa due chilometri di distanza, la nera superficie di una roccia lavica che torreggiava sulla giungla simile a una nave fantasma.

Udì il risucchio dell’aria nella pompa e notò che la posizione della capsula si stava gradualmente rie­quilibrando.

Poco dopo Chen-Lhu riapparve portando nella cabina un soffio d’aria umida e fredda. «È quasi freddo, là fuori», disse. «Che cosa dice l’altimetro, Johnny?»

Joao si alzò e guardò il cruscotto. «Seicento e ot­to metri.»

«Secondo lei, quanta strada abbiamo fatto?»

Joao alzò le spalle e rimase in silenzio.

«Circa centocinquanta chilometri?» chiese Chen-Lhu.

Joao guardò gli argini inondati che scorrevano ve­loci, la corrente che lambiva nodose, orrende radici. Si accorse di avere fame. Cercò i pacchetti delle ra­zioni, le distribuì ai suoi compagni, quindi mangiò avidamente.

Una cortina di pioggia sferzò il parabrezza. La cap­sula sbandò e s’inclinò. Un’altra raffica di vento la scosse. Poi riprese la sua rotta attraversando file di piccole onde sollevate dal vento. La spessa cortina di pioggia cancellava sulle sponde tutti i colori della vegetazione. Il vento cessò completamente, ma la piog­gia continuava a cadere così pesantemente che le gocce sembravano dondolare e danzare in senso orizzontale.

Un breve tratto di spiaggia chiazzata di graniti sfrecciò davanti agli occhi di Joao come uno scena­rio surreale. In quel punto il fiume sembrava largo almeno un chilometro; la sua superficie scura e mel­mosa, turgida e ondulata, era cosparsa di cortecce di alberi, grovigli di arbusti e tronchi galleggianti.

D’un tratto la capsula barcollò. I galleggianti sbat­terono, urtarono contro qualcosa sott’acqua e Joao trattenne il respiro nel timore che la riparazione ce­desse.

«Secche?» chiese Chen-Lhu.

Spuntò alla loro sinistra un ceppo di legno che, trasportato dalla corrente, roteava e s’inabissava come una cosa vivente.

Rhin bisbigliò: «Il galleggiante…»

«Sembra che regga», disse Joao.

Un calabrone verde si posò sul parabrezza, agitò le antenne verso di loro e volò via.

«Qualunque cosa ci accada, suscita il loro interes­se», disse Chen-Lhu.

«Quel troncone laggiù… non credi che…» fece Rhin.

«Sono pronto a credere qualsiasi cosa», repli­cò Chen-Lhu.

Rhin chiuse gli occhi e mormorò: «Li odio! Li odio!»

La pioggia stava gradualmente diminuendo. Po­che gocce spruzzavano qua e là la superficie del fiu­me e tamburellavano sulla calotta.

Rhin aprì gli occhi e vide strisce di cielo limpi­do apparire e scomparire dietro le nuvole. «Si sta schiarendo?» chiese.

«Che differenza fa?» disse Chen-Lhu.

Lo sguardo di Joao vagava sull’erba piatta e ba­gnata di una radura apparsa alla loro sinistra. Do­ve finiva l’erba, spuntava la parete umida e verde della giungla.