A un metro da D’Lugan un uomo, nell’uniforme nera delle guardie, era steso bocconi. Non c’erano tracce di sangue, ma il caduto evidentemente non era più in grado di muoversi; era o già morto o era un cadavere vivente, perché lo stordigente di D’Lugan l’aveva preso in pieno.
Sulla scena c’erano altri tre uomini: due Neri, uno dei quali teneva la pistola a energia puntata contro D’Lugan afflosciato al suolo, mentre l’altro in piedi di fronte a Janas impugnava la pistola. Il terzo, infine, era un civile corpulento, la cui faccia smorta rassomigliava notevolmente a quella di Altho Franken.
Poi, bruscamente, la scena cambiò. Le armi a energia dei Neri ronzarono e, quasi nello stesso istante, Janas, nell’attimo in cui si gettava di fianco, avverti alla spalla una puntura acuta, mentre il corridoio si riempiva di fumo.
La grossa 45 che Janas impugnava entrò in azione con un rombo assordante. Il più vicino dei due Neri crollò in avanti, con il cranio letteralmente scoperchiato, schizzando ossa e materia cerebrale tutt’attorno sulla parete.
Nel frattempo, un altro raggio di energia aveva investito D’Lugan, troncando la vita del giovane arrabbiato sopravvissuto allo stupido massacro rappresentato dalla cosiddetta Battaglia del settantasette.
La 45 sparò altre due volte, appena l’indice di Janas ebbe il tempo di premere il grilletto, e le due pallottole raggiunsero in pieno petto l’agente che aveva ammazzato Paul D’Lugan. Con un ultimo riflesso puramente animale, l’uomo fece ancora fuoco con la sua arma a energia, ma il raggio stavolta investì solo il soffitto.
Robert Janas si senti quasi venire meno, stordito dal dolore alla spalla, dal fumo acre che riempiva l’ambiente e dalla morte di un uomo che era diventato in quelle brevi ore suo amico.
Bilthor Franken gridò qualcosa, tentando di raggiungere le scale da cui era arrivato. La pistola di Janas sparò per la quarta volta, mirando un po’ sopra la testa di Bilthor, e provocando una pioggia di calcinacci dalla parete della scala.
«Ferma!» gridò Janas.
L’altro si fermò e si voltò a guardare Janas.
«Di qui» disse Janas, indicando il corridoio. «Andiamo.»
Bilthor esitò. Janas alzò di scatto la 45. L’altro si decise e si avviò, barcollando, verso l’ufficio.
Pochi secondi dopo, Janas e il suo prigioniero entravano nel lussuoso ufficio di Franken. Il presidente della CNS aveva cominciato a muoversi penosamente e tentava di sollevarsi da terra.
Maura guardò Janas con aria interrogativa, e con un’espressione di paura e tristezza negli occhi verdi.
«È morto» le disse Janas piano; e si voltò, per non guardarla. Non voleva vedere la faccia di lei, l’angoscia che le sconvolgeva i lineamenti delicati.
All’esterno, nella calma improvvisa, si avvertiva ancora il rombo sempre più forte dell’elicottero che si avvicinava. Guardando dalla finestra, Janas scorse, nell’aria della sera, il mezzo che portava sulla carlinga i vivaci colori della CNS.
«Maura» disse Janas. «Come si fa a salire sul tetto?»
La ragazza lo guardò senza sentirlo, come se non sapesse neppure che Janas le aveva rivolto la parola.
«Il tetto!» ripeté lui. «Dobbiamo arrivarci prima degli altri!»
La ragazza rientrò bruscamente in sé. «Da questa parte, credo» disse con voce spenta.
Janas afferrò Franken e lo rimise brutalmente in piedi.
«Cammina, maledizione» disse. «Aiutatelo» disse a Bilthor. «Non costringetemi ad ammazzarvi entrambi.»
Bilthor, pallidissimo, si avvicinò al fratello e lo aiutò a sorreggersi. Franken fissò Janas con uno sguardo carico di angoscia e di odio.
«Seguitela» ordinò Janas, indicando Maura che aspettava, pallida e con gli occhi pieni di lacrime, ma pronta ad agire.
La ragazza si avviò senza esitare, seguita dai tre uomini. Un secondo dopo arrivavano all’ascensore che portava alla terrazza d’atterraggio degli elicotteri, situata sul tetto del palazzo. I fratelli Franken salirono in ascensore, seguiti da Janas, che teneva la pistola puntata contro di loro: pochi minuti dopo il gruppetto uscì sulla terrazza.
«Cittadino Franken» disse un inserviente sbalordito, vedendo il sangue che colava sulla faccia del presidente. «Mi pareva di aver sentito...» in quel momento vide la pistola in mano a Janas, e chiuse la bocca.
«Non muovetevi» disse Janas, alzando gli occhi verso l’elicottero che manovrava per l’atterraggio. Appena vide la faccia del pilota, agitò un braccio in segno di riconoscimento, senza badare alle fitte che gli paralizzavano la spalla sinistra da cui colava il sangue. Jarl Emmett era arrivato appena in tempo.
20
La notizia, come avviene sempre per le cattive notizie, trapelò nonostante le precauzioni prese. L’Armada si era scontrata con le forze dei ribelli e era stata sconfitta, e ora i ribelli puntavano verso la Terra per distruggere la Confederazione.
Era già buio, all’avamposto della Base Lunare della Confederazione, nel cratere di Copernico. L’ombra proiettata dalla cerchia delle mura si era allungata, era scesa nelle profondità del cratere e, a poco a poco, era risalita lungo la parete di fronte. Il cielo, col sopraggiungere della notte, non era cambiato: era nero come sempre, e la fetta di Terra appariva sempre più piccola, via via che la Luna ruotava verso di lei la faccia illuminata. La luce riflessa della Terra, pallida e azzurrognola, dava a quel paesaggio desolato un aspetto surreale, tutt’altro che brutto.
Questi sarebbero stati i pensieri del caporale Kaire Lee Chan, se lui li avesse tradotti per scritto. Il caporale Chan, però, era convinto di fare semplicemente il giro di ronda intorno alla postazione di Copernico, secondo un’antica tradizione delle forze annate terrestri, che risaliva all’alba della storia.
E mentre faceva il suo giro, il caporale Chan provava un altro sentimento, che se fosse stato anche questo tradotto per scritto, si sarebbe detto di paura. Il caporale si sentiva un macigno sullo stomaco, un macigno che lui non riusciva né a eliminare né a buttar giù, tanto che aveva finito per abituarsi a averlo li.
Chan, in realtà, per quanto avesse portato per un certo periodo, e cioè fino a quando gli avevano dato i gradi da caporale, l’uniforme della Confederazione, non si sentiva un soldato, né, d’altra parte, lo era. Lui era sempre stato un bravo meccanico e, nonostante l’uniforme, lo sarebbe sempre stato: niente di più e niente di meno.
Il caporale Chan si voltò a guardare la cupola di paraglas, che si trovava a un chilometro e mezzo dalla postazione, ed era tutta illuminata, piena di aria, di calore e di birra e di cinque o sei ragazze che la Confederazione concedeva ai soldati in servizio nell’antico avamposto di Copernico; e gli venne voglia di fregarsi il naso e di accendersi una sigaretta, tutte cose che, essendo chiuso nella tuta spaziale, non poteva fare. Allora scacciò con fermezza il pensiero delle ragazze: in fondo, era di guardia, e aveva ben altro a cui pensare.
Tornò a alzare gli occhi al cielo, alla fetta di Terra che si stagliava lassù, e pensò alle voci che correvano, secondo le quali il vecchio Juliene le aveva prese secche dai ribelli, che ora si precipitavano come furie verso la Terra. Chan non poteva crederci. Juliene era un soldato maledettamente in gamba, era impossibile che non li avesse battuti. Però... però qualcosa gli diceva che forse era vero. A quanto si diceva Kantralas era una vecchia volpe, molto più astuta di Juliene. E forse...