Una delle navi vedetta, la “Douglas MacArthur”, in agguato nello spazio a distanza di diversi anni-luce dalla stella più vicina, catapultò uno dei suoi dodici ricognitori automatici Anti-spazio. Appena il ricognitore, il MAC-5, si fu staccato di cinquecento chilometri dalla propria unità, si fermò e rimase per lungo tempo immobile ad accumulare energia per le proprie Unità automatiche interne.
Appena il potenziale di energia fu raggiunto, si creò, attorno all’unità, un campo gravitazionale di potenza enorme che, a poco a poco, ma con forza sempre crescente, prese a penetrare la sostanza stessa dell’universo.
Allora, bruscamente, l’universo normale rifiutò la presenza di quel corpo estraneo e lo rigettò con estrema violenza. Con un’esplosione spaventosa di energia, il ricognitore spari, ormai eliminato dal continuum spazio-tempo.
Ecco, dunque, ciò che avvenne al ricognitore Anti-spazio MAC-5, appartenente alla nave vedetta “Douglas MacArthur”. Ricacciato con estrema violenza dal macrocosmo tridimensionale, valicò lo spazio a “quattro (e anche cinque) dimensioni” e si ritrovò in un altro continuum, nell’Anti-spazio. L’Anti-spazio, a sua volta, costituiva un universo completo, indipendente dallo spazio-tempo, ma privo, s’intende, della moltitudine di stelle e di polvere stellare, elementi tipici dello spazio-tempo.
Appena il MAC-5 si ritrovò nell’Anti-spazio, decine di strumenti entrarono immediatamente in azione per scandagliare l’Anti-spazio e scoprire, nelle profondità della Galassia, le unità della flotta del generale Henri Kantralas, capo dei ribelli della Lega dei Mondi Indipendenti.
Un ricognitore deve rimanere come minimo cinque ore nell’Anti-spazio, perché le batterie interne abbiano modo di raggiungere il potenziale sufficiente che gli consenta di rientrare nello spazio normale e di ricongiungersi con la nave-appoggio, a cui riferire i risultati della ricognizione. Le cinque ore erano quasi trascorse, quando il laser-radar del MAC-5 scopri, nel grigiore indistinto dell’Anti-spazio, qualcosa in movimento. Il calcolatore di bordo analizzò il segnale di ritorno, determinò la velocità e la distanza delle forze in arrivo e memorizzò i dati ricavati. Il laser-radar, nel frattempo, continuava le ricerche, individuando altre forze in movimento, e valutandone, un giro dopo l’altro, l’entità. Allo scadere delle cinque ore, le apparecchiature automatiche scattarono, il potenziale delle Unità interne sali al livello richiesto e il MAC-5 lasciò l’Anti-spazio per rientrare nell’universo nero e stellato, dove la “Douglas MacArthur” lo attendeva.
Senza perdere un istante, il MAC-5 si collegò con il calcolatore della nave-appoggio, e gli trasmise, con ticchettio frenetico, i dati raccolti poco prima. Infine il calcolatore della “Mac Arthur” comunicò all’equipaggio di bordo i dati ottenuti.
Il comandante della “MacArthur” fu messo al corrente mediante una lunga striscia di carta, su cui il calcolatore aveva tradotto, in un linguaggio comprensibile agli uomini, i dati elaborati. I ribelli stavano arrivando in forze, diceva il rapporto, benché il MAC-5 non fosse riuscito a stabilire con precisione l’entità delle forze in campo. Il nemico, comunque, disponeva di una flotta pari, se non superiore, alla flotta che aveva preso la via dalla Terra. Entro un’ora, se i ribelli non lo avevano intercettato, sarebbe rientrato dall’Anti-spazio il MAC-6, portando notizie più precise. Il comandante della “MacArthur”, comunque, non aveva tempo da perdere, e doveva trasmettere immediatamente le informazioni ricevute alla flotta in arrivo dalla Terra.
Nella stiva della “MacArthur” era in attesa l’equipaggio di un’Unità portatile, fornita di tre capsule porta-messaggi. Il comandante consegnò all’equipaggio i nastri dei computers, che dovevano essere collocati nelle capsule e, un secondo dopo, l’Unità fu spinta fino al portello e lanciata nello spazio. Le capsule, sotto la spinta dei razzi, arrivarono a cinquecento chilometri dalla nave appoggio e abbandonarono lo spazio normale.
Appena entrate nell’Anti-spazio, le capsule si staccarono dall’Unità di lancio, accesero i plasma-jet, e filarono via con una accelerazione capace di annientare un essere umano.
Le tre capsule erano programmate in modo da poter avvistare la flotta proveniente dalla Terra per avvertirla che le forze ribelli stavano avvicinandosi. La prima capsula, una volta agganciata la flotta, avrebbe avvertito le colleghe che la missione era riuscita; subito dopo le altre due capsule avrebbero proseguito la corsa verso la nuova meta, cioè la Terra, per mettere al corrente dell’accaduto la capitale della Confederazione.
La “Douglas MacArthur”, intanto, aspettava che il MAC-6 portasse a termine la propria ricognizione nell’Anti-spazio; aspettava che il nemico in arrivo individuasse i ricognitori e penetrasse nello spazio normale per scoprire le navi d’appoggio: aspettava, insomma, il nemico e la morte.
Il comandante della “MacArthur”, ritto sul ponte, scrutava nell’immensità dello spazio. I suoi uomini erano pronti, i pezzi puntati, i missili innestati. Ma lui sapeva quale era il destino delle navi vedetta. Queste unità non costituivano neppure la prima linea difensiva; non avevano altro compito che di stare all’erta, indagare e snidare il nemico. Poi, una volta portata a termine la missione, erano destinate a perire, ma a perire combattendo.
Il comandante della “MacArthur” sentì un brivido corrergli per la schiena, ma non lasciò trapelare davanti ai suoi uomini la propria angoscia.
3
Per la traversata dalla Luna alla Terra ci volevano, a seconda dei casi, dalle cinque alle quindici ore. Janas e alcuni altri viaggiatori decisero di prendere il traghetto espresso che partiva un’ora dopo l’astronave di lusso, ma che arrivava in vista degli abitanti terrestri sei ore prima di quella.
Quando il traghetto Luna-Terra penetrò nell’atmosfera e puntò verso le immense installazioni portuali del Nord America sud occidentale, la Terra era immersa nelle tenebre. Attraverso la nuvolaglia sparsa, Janas intravvedeva le luci che costellavano il lungo nastro della città di Phoenix-Tucson: una striscia di gemme lucenti posata sull’aspro paesaggio. A nord-est del grappolo di luci che costituiva il centro di Phoenix, si notavano altre luci, molto più deboli. Erano, anche queste, le luci di una metropoli, e cioè del centro cresciuto attorno allo spazioporto di Flagstaff, posato sull’altopiano del Colorado.
Il traghetto rallentò la corsa e frenò, mentre attraversava un banco sottile di nuvole a grande altezza, e infine, quando le luci dello spazioporto si distinsero ben nitide calò lentamente verso il suolo. Pochi secondi dopo, lo scafo si posava, leggero come una piuma, sulla pista di acciaio e cemento.
Appena le luci brillarono all’interno della cabina, Robert Janas si liberò dalla cinghia, si alzò, raccolse la borsa e seguì gli altri viaggiatori fino all’overbus che li aspettava per portarli al terminal, a sette chilometri dalla pista.
Cinque minuti dopo Janas scese dall’overbus sul piazzale del terminal e si guardò attorno, cercando ansiosamente la faccia familiare di Jarl Emmett. L’amico però non c’era, o, per lo meno, non era ad aspettarlo a quell’uscita.
Janas aveva appena fatto pochi metri nel piazzale affollato, quando un ragazzo, in divisa da fattorino, lo raggiunse.
«Il comandante Robert Janas?» chiese il ragazzo.
«Sì» disse Janas.
«Un messaggio per voi, signore.» disse l’altro. «Per favore, firmate qui.»
Janas scarabocchiò la sua firma, ci stampò sopra l’impronta del pollice, ritirò la busta e mise nella mano del ragazzo una monetina d’oro.
«Grazie, signore.»