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Duefiori si sforzava, con il solo ausilio del suo dizionarietto autarchico, di spiegare al Grosso i misteri della famosa formula che aveva già snocciolato a Scuotivento. Il grasso taverniere lo ascoltava attento, con gli occhietti neri scintillanti.

Seduto all’estremità del tavolo Ymor li osservava con blando divertimento e di tanto in tanto nutriva uno dei suoi corvi con gli avanzi del suo piatto. Accanto a lui, Giunco camminava su e giù.

— Ti agiti troppo — gli disse Ymor senza staccare gli occhi dai due uomini di fronte a lui. — Lo sento, Stren. Chi oserebbe attaccarci qui? E quel mago da strapazzo verrà. È troppo codardo per non farlo. E cercherà di mercanteggiare. E noi lo terremo in pugno. Lui e l’oro e la cassa.

L’unico occhio di Giunco mandò un lampo e lui si batté il pugno sul palmo della mano guantata di nero.

— Chi avrebbe immaginato che in tutto il disco ci fosse tanto legno del pero sapiente? — esclamò. — Come avremmo potuto saperlo?

— Ti agiti troppo, Stren — ripeté Ymor. — Sono sicuro che questa volta farai meglio.

Il suo luogotenente sbuffò dal disgusto e fece il giro del locale per strapazzare i suoi uomini. Ymor continuò a fissare il turista.

Era strano, ma l’ometto non pareva rendersi conto della gravità della sua situazione. Ymor l’aveva visto più volte guardarsi intorno con aria di profonda soddisfazione. Era anche un pezzo che parlava col Grosso e Ymor aveva visto un pezzo di carta cambiare di mano. E il Grosso aveva dato delle monete allo straniero. Era strano.

Quando il Grosso si alzò e passò accanto alla sua seggiola, il braccio del mastro ladrone scattò come una molla d’acciaio e trattenne il grassone per il grembiule.

— Che stavate facendo, amico? — gli chiese a voce bassa.

— N-niente, Ymor. Semplicemente degli affari privati, diciamo.

— Tra amici non ci sono segreti, Grosso.

— Già. Be’, non ne sono sicuro nemmeno io, davvero. È una specie di scommessa, capisci? — disse nervosamente l’albergatore. — Si chiama… assi-cura-zione. - È una specie di scommessa che il Tamburo Rotto non sarà distrutto da un incendio.

Ymor continuò a fissarlo finché il Grosso non si contorse dalla paura e dall’imbarazzo. Poi il mastro ladrone scoppiò a ridere.

— Questo ammasso di vecchie travi rose dai vermi? — disse. — Quell’uomo deve essere matto.

— Sì, ma un matto con i quattrini. Sostiene che adesso che ha ottenuto il… non posso ricordarmi la parola, comincia con una P, sarebbe quello che si chiama posta della scommessa, la gente per cui lui lavora nell’Impero Agateo pagherà. Se il Tamburo Rotto sarà distrutto dall’incendio. Non che io speri che lo sia. Bruciato. Il Tamburo Rotto, intendo. Voglio dire, per me è come una casa, il Tamburo…

— Non sei completamente stupido, vero? — disse Ymor e mandò via il taverniere.

La porta si spalancò e sbatté contro la parete.

— Ehi, quella è la mia porta! — urlò il Grosso. Scoprì chi era colui che si era fermato in cima alle scale, e si tuffò dietro un tavolo, appena in tempo prima che una corta freccia nera volasse attraverso il locale e si conficcasse nel legno.

Muovendosi con precauzione, Ymor si versò un’altra pinta di birra.

— Non vorresti farmi compagnia, Zlorf? — lo invitò senza scomporsi. — E tu, Stren, metti via quella spada. Zlorf Flannelfoot è amico nostro.

Il presidente della Corporazione degli Assassini roteò con destrezza la corta arma e la rinfoderò in un solo agile movimento.

— Stren! — lo richiamò Ymor.

Il ladro nerovestito fece un sibilo e rimise la spada nel fodero. Ma mantenne la mano sull’elsa e gli occhi sull’assassino.

Non gli fu facile. Nella Corporazione degli Assassini la promozione si otteneva grazie a un esame competitivo, di cui la parte più importante, anzi l’unica, consisteva nella prova pratica. Così la larga, onesta faccia di Zlorf era solcata da cicatrici, risultato di tanti scontri ravvicinati. Probabilmente non sarebbe stata mai molto piacevole da vedersi. Si diceva che Zlorf aveva scelto una professione nella quale cappucci scuri, mantelli e vagabondaggi notturni avevano una larga parte perché nel suo parentado c’era un ramo trollesco che temeva la luce del giorno.

Quelli che lo dicevano a portata d’orecchi di Zlorf, rischiavano di riportarsi a casa i loro nel cappello.

L’uomo scese le scale, seguito da un certo numero di assassini. Si piazzò davanti a Ymor e dichiarò: — Sono venuto per il turista.

— È una cosa che ti riguarda. Zlorf

— Sì. Grinjo. Urmond, prendetelo.

I due assassini si fecero avanti. Si trovarono di fronte a Stren: la sua spada pareva essersi materializzata a un centimetro dalla loro gola, senza che nemmeno se ne accorgessero.

— Possibile che potrei uccidere soltanto uno di voi — mormorò — ma vi suggerisco di chiedervi… quale?

— Guarda lassù, Zlorf — disse Ymor.

Una fila di pupille gialle, minacciose lo guardavano dall’oscurità tra le travi.

— Ancora un passo e te ne andrai con meno occhi di quando sei arrivato — affermò il mastro ladrone. — Così siediti e bevi qualcosa, Zlorf; parliamone da persone ragionevoli. Credevo che avessimo fatto un accordo: tu non rubi, io non ammazzo. Ossia, non a pagamento — aggiunse dopo una pausa.

Zlorf accettò la birra che gli veniva offerta.

— E allora? — disse. — Io l’ammazzo e poi tu lo derubi. È quel tipo buffo laggiù?

— Sì.

Zlorf fissò Duefiori, che gli rivolse un sorrisetto. L’assassino alzò le spalle. Raramente perdeva tempo a domandarsi perché certa gente voleva morta altra gente. Era semplicemente un modo di guadagnarsi da vivere.

— Posso chiedere chi è il tuo cliente? — domandò Ymor.

Zlorf sollevò una mano. — Per piacere! — protestò. — Etica professionale.

— Naturalmente. A proposito…

— Sì?

— Credo di avere fuori un paio di guardie…

— Avevi.

— E delle altre nel vano del portone sul marciapiede opposto.

— In passato.

— E due arcieri sul tetto.

Un fremito di dubbio passò sul viso di Zlorf, come l’ultimo raggio di sole su un campo malamente arato.

La porta si spalancò e andò a sbattere contro l’assassino in piedi lì accanto.

— Piantatela! — gridò il Grosso da sotto il tavolo.

Zlorf e Ymor alzarono gli occhi sul tipo fermo sulla soglia. Era basso, grasso e riccamente abbigliato. Sfarzosamente abbigliato. Dietro a lui s’intravedevano delle sagome alte e grosse. Sagome molto grosse, minacciose.

— Chi è quello? — chiese Zlorf.

— Io lo conosco — rispose Ymor. — Si chiama Rerpf. Dirige il Groaning Platter, la taverna vicino al ponte Brass. Stren, levalo di mezzo.

Rerpf alzò una mano inanellata. Stren Giunco esitò, a mezza strada dalla porta, vedendo diversi troll massicci chinarsi per entrare e mettersi ai lati del grassone, strizzando gli occhi alla luce. Dei muscoli delle dimensioni di un melone gonfiavano i bicipiti simili a sacchi di farina. Ogni troll teneva una bipenne. Tra il pollice e l’indice.

Il Grosso venne fuori dal suo nascondiglio, fumante di rabbia. — Fuori! — urlò. — Mandate fuori di qui quei troll!

Nessuno si mosse. Nel locale regnava una calma improvvisa. Il Grosso lanciò un’occhiata in giro. Soltanto allora capì quello che aveva detto e a chi l’aveva detto. Dalle labbra gli sfuggì un gemito.

Arrivò alla porta della cantina proprio quando uno dei troll, con un gesto appena percettibile di una delle sue mani grosse come un prosciutto, fece volare l’ascia attraverso la stanza. Il tonfo della porta e il legno spaccato dalla scure si fusero in un solo rumore.

— Che diavolo! — esclamò Zlorf Flannelfoot.

— Che volete? — domandò Ymor.