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— Sono qui per conto della Corporazione dei Mercanti e Commercianti — rispose calmo Rerpf. — Per proteggere i vostri interessi, si potrebbe dire. Si tratta dell’ometto.

Ymor aggrottò la fronte. — Mi dispiace — disse. — Credevo che aveste detto la Corporazione dei Mercanti.

— E dei Commercianti — completò Rerpf. Dietro a lui, in aggiunta ad altri troll c’erano parecchi uomini che Ymor riconobbe vagamente. Li aveva visti, forse, dietro ai banchi dei negozi e dei bar. Simili a ombre, di solito, figure facilmente ignorate, facilmente dimenticate. Cominciò a preoccuparsi. Pensò a quello che poteva provare, diciamo, una volpe di fronte a una pecora arrabbiata. Una pecora, inoltre, che poteva permettersi d’impiegare dei lupi.

— Da quanto tempo esiste questa… Corporazione, se posso domandarlo?

— Da questo pomeriggio — dichiarò Rerpf. — Io sono il vicecapo corporazione incaricato del turismo, sapete.

— Che cos’è questo turismo di cui parlate?

— Uh… non ne siamo proprio sicuri… — cominciò Rerpf. Un vecchio barbuto sporse la testa al di sopra delle sue spalle e gracchiò: — Parlo a nome dei vinai di Morpork. Il Turismo significa Affari. Capito?

— Allora? — disse freddamente Ymor.

— Allora — ribatté Rerpf — noi proteggiamo i nostri interessi, come ho già detto.

— Fuori i ladri, fuori i ladri! — chiocciò il suo anziano compagno. Altri ripresero il canto. Zlorf sogghignò soddisfatto. — E gli assassini — cantò il vecchio. Zlorf grugnì.

— Ha ragione — asserì Rerpf. — Dappertutto ladri e assassini. Quale sarà l’impressione che ne riporteranno i visitatori? Uno viene da lontano per visitare la nostra bella città con i suoi luoghi d’interesse storico e civico e i suoi strani usi e costumi, e si risveglia morto in qualche vicolo o si ritrova a galleggiare giù per l’Ankh. Come fa a raccontare a tutti gli amici come se la sta spassando? Ammettiamolo, bisogna muoversi di pari passo con i tempi.

Zlorf e Ymor si scambiarono un’occhiata.

— Proprio così — disse Ymor.

— Allora muoviamoci, fratello — replicò Zlorf. Con un solo movimento si portò la cerbottana alla bocca e lanciò una freccia sibilante contro il gigante più vicino. Questi, con una piroetta, scagliò la bipenne che sorpassò ronzando la testa dell’assassino e si andò a conficcare in uno sfortunato ladro alle sue spalle.

Rerpf si abbassò e così permise a un troll alle sue spalle di sollevare la sua pesante balestra di ferro e colpire con una freccia lunga come una lancia il più vicino assassino. Quello fu l’inizio…

È stato già osservato come coloro che sono sensibili alle radiazioni del lontano ottarino, l’ottavo colore, il pigmento dell’Immaginazione, riescono a vedere cose che altri non vedono.

Fu così che Scuotivento, attraversando rapido i bazar affollati e scintillanti di luci di Morpork, con il Bagaglio che lo seguiva trotterellando, si scontrò con un’alta figura scura, si voltò per lanciarle un po’ di improperi, e si trovò davanti la Morte.

Doveva essere la Morte. Nessun altro se ne andava in giro con le orbite vuote, e poi la falce sopra la spalla era un altro indizio sicuro. Mentre la fissava terrorizzato, una coppia d’innamorati ridenti attraversò l’apparizione e proseguì, senza mostrare di accorgersene. Per quanto possibile in un volto privo di lineamenti mobili, la Morte sembrò sorpresa.

— Scuotivento? — chiamò la Morte in toni profondi e grevi come lo sbattere di porte di piombo, giù giù sottoterra.

— Uhm — disse Scuotivento che cercò di indietreggiare, allontanandosi da quello sguardo cieco.

— Ma perché sei qui? ("Bum bum" rintronarono i battenti della cripta nelle fortezze brulicanti di vermi sotto le antiche montagne…)

— Uhm, perché no? — rispose Scuotivento. — Comunque, sono sicuro che hai tanto da fare, quindi se soltanto…

— Mi ha sorpreso che tu mi abbia urtato, Scuotivento, perché ho appuntamento con te proprio questa notte.

— Oh no, non…

— Naturalmente, ciò che mi secca di questa faccenda è che mi aspettavo di incontrarti a Psephopololis.

— Ma si trova a quasi ottocento chilometri da qui!

— Non ho bisognò che tu me lo dica; tutto il sistema è di nuovo scombinato, vedo. Senti, non è possibile che tu…?

Scuotivento indietreggiò, con le mani tese per proteggersi. Dal banco vicino, il venditore di pesce secco osservava con interesse quel povero matto.

— Non è assolutamente possibile!

— Ti potrei prestare un cavallo molto veloce.

— No!

— Non sentirai nessun male.

— No! — Scuotivento si voltò e corse via. La morte lo guardò allontanarsi e scrollò le spalle amaramente.

— Va’ a farti fottere, allora — disse la Morte. Si girò e vide il pescivendolo. Con un sogghigno, la Morte allungò un dito ossuto e arrestò il cuore dell’uomo, ma non ne fu molto orgogliosa.

Poi la Morte si ricordò che cosa doveva accadere più tardi quella notte. Non sarebbe esatto dire che sorrise, perché per forza di cose i suoi lineamenti erano fissi in un sogghigno calcareo. Ma si mise a canterellare un motivetto, allegro come il segno lasciato da un bubbone; smise soltanto per togliere la vita a una effimera svolazzante e una delle sue nove a un gatto accovacciato sotto il banco del pescivendolo (tutti i gatti possono vedere nell’ottarino). Poi la Morte girò sui tacchi e si avviò al Tamburo Rotto.

La Viabreve, a Morpork, è di fatto una delle più lunghe della città. Via Filigrana la taglia all’estremità come la traversa di una T, e il Tamburo Rotto è situato in modo da avere l’intera visuale della strada.

In fondo a Viabreve, una sagoma scura e oblunga si alzò su centinaia di gambette e prese a correre. Da principio si muoveva al piccolo trotto ma poi, a metà strada, era veloce come una freccia.

Un’ombra più scura strisciava lungo un muro del Tamburo, a pochi metri dai due troll di guardia all’ingresso. Scuotivento stava sudando. Se quelli udivano il lieve tintinnio delle borse appese alla sua cintura…

Uno dei troll batté sulla spalla del suo collega, con un rumore simile a quello di due sassi percossi insieme, e puntò il dito verso la strada illuminata dalla luce delle stelle.

Scuotivento sfrecciò dal suo nascondiglio, girò e si catapultò attraverso la finestra più vicina del Tamburo.

Giunco la vide arrivare. La borsa descrisse un arco attraverso il locale, ondeggiando lenta nell’aria e si aprì sul bordo di un tavolo. Un attimo dopo le monete d’oro rotolavano sul pavimento, scintillanti.

Nella stanza cadde improvvisamente il silenzio, che era rotto soltanto dal tintinnio lieve dell’oro e dai lamenti dei feriti. Con un’imprecazione Giunco spacciò l’assassino con il quale si batteva. — È un trucco! — gridò. — Che nessuno si muova!

Una trentina di uomini e una dozzina di troll s’immobilizzarono.

Poi, per la terza volta, la porta si spalancò. Due troll entrarono a precipizio, la richiusero, l’assicurarono con una pesante sbarra e volarono giù per la scala.

Fuori risuonò un improvviso crescendo di passi di corsa. E la porta si apri per l’ultima volta. O. meglio, esplose: la grande sbarra di legno volò attraverso il locale e l’intelaiatura cedette.

Battente e intelaiatura finirono su un tavolo, che volò in pezzi. Fu allora che i combattenti esterrefatti notarono qualcos’altro nell’ammasso di legno. Era una cassa che si dimenava per liberarsi.

Scuotivento apparve sulla soglia e scagliò un’altra delle sue granate d’oro, che si schiantò contro una parete con una pioggia di monete.

Giù nella cantina il Grosso alzò gli occhi, borbottò tra sé e sé e si rimise al lavoro. La sua riserva di candele era già sparsa sul pavimento insieme alla sua scorta di legna da ardere. Adesso stava maneggiando un barilotto di olio per lampada.

Le parole che mormorava ripetevano l’incomprensibile formula pronunciata da Duefiori. L’olio sgorgò dal barilotto e si sparse sul pavimento.

Giunco, furente di rabbia, si precipitò innanzi. Scuotivento prese la mira e colse il ladro in pieno petto con una borsa d’oro.