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Scuotivento non conosceva il significato della parola premio, ma la sua mente lavorava in fretta.

— Avete assi-cura-to il Tamburo? Avete scommesso con il Grosso che non avrebbe preso fuoco?

— Oh sì. Gli ho fatto una stima standard, duecento rhinu. Perché me lo chiedete?

Scuotivento si girò a guardare le fiamme che avanzavano e si domandò quanto si potesse comprare di Morpork con duecento rhinu. Un gran bel pezzo, decise. Ma non ora, non al ritmo con cui si muoveva l’incendio.

Guardò l’ometto. — Voi… — cominciò e si sforzò di ricordarsi il peggiore impropero in lingua trob; ma il piccolo popolo felice dei Trob non sapeva imprecare a dovere.

— Voi — ripeté. Un’altra figura frettolosa lo urtò, mancandolo di un pelo con la lama che portava in spalla. Scuotivento si lasciò andare a uno scoppio di collera.

— Voi piccolo (uno che, con un anello di rame al naso, si bagna i piedi in cinta al monte Raruaruaha durante un violento temporale e grida che la Dea dei Lampi, Alohura, ha i lineamenti di una radice guasta di uloruaha).

— Faccio semplicemente il mio lavoro — disse la figura, allontanandosi.

Ogni parola cadde pesantemente come una lastra di marmo; inoltre Scuotivento era sicuro di averle udite soltanto lui. Afferrò di nuovo Duefiori.

— Andiamocene via! — lo esortò.

Uno degli effetti collaterali interessanti dell’incendio di Ankh-Morpork riguarda la polizza "assicurativa", che lasciò la città attraverso il tetto devastato del Tamburo Rotto, fu sospinta in alto dal calore su nell’atmosfera del disco e dopo parecchi giorni atterrò qualche migliaio di chilometri lontano su un cespuglio di uloruaha nelle isole Trob. Gli isolani, gente semplice e ridanciana, l’adorarono come un dio, con grande sollazzo dei loro vicini più sofisticati. Strano a dirsi, negli anni immediatamente successivi le piogge e il raccolto furono incredibilmente abbondanti. Ne conseguì che un gruppo di ricercatori fu inviato nelle isole dalla facoltà delle Religioni minori dell’Università Invisibile. Il loro verdetto fu che si trattava soltanto di una messa in scena.

Il fuoco, spinto dal vento, si propagò dal Tamburo così rapidamente che la struttura della Porta Widdcrshin era già in fiamme quando Scuotivento ci arrivò, con il viso arrossato e coperto di vesciche. Lui e Duefiori erano a cavallo. Non era stato troppo difficile procurarsi gli animali. Un astuto mercante aveva chiesto cinquanta volte il loro valore ed era rimasto a bocca aperta quando si era ritrovato in mano una somma di mille volte il prezzo reale.

I due fecero appena in tempo a passare: subito dopo, la prima delle grandi travi venne giù in un’esplosione di scintille. Ormai Morpork era un calderone di fiamme.

Mentre galoppavano per la strada illuminata dall’incendio Scuotivento lanciò un’occhiata al suo compagno di viaggio, che si sforzava d’imparare a cavalcare.

"Per l’inferno" pensò. "Lui è vivo. Anch’io. Chi l’avrebbe creduto? Che ci sia qualcosa in questo suono-riflesso-di-spiriti-sotterranei?" Una frase non facile da pronunciare. Scuotivento si sforzò di farlo nelle sillabe complicate della lingua di Duefiori.

— Ecolirix? - provò. — Ecrognotico? Eco-gnomia?

Questo poteva andare. Suonava quasi bene.

Già lungo il fiume, a parecchie centinaia di metri di distanza dall’ultimo fumante sobborgo della città, uno strano oggetto rettangolare e grondante acqua toccò la riva fangosa. Immediatamente gli spuntarono numerose gambe e la cosa misteriosa cercò a tentoni un punto d’appoggio.

Il Bagaglio si issò sull’argine. Era zuppo, sporco di fuliggine e molto, molto arrabbiato. Si scrollò e si guardò intorno per orientarsi. Poi si allontanò a un trotto vivace; appollaiato sul coperchio l’omuncolo incredibilmente brutto osservava la scena con interesse.

Bravd guardò Donnola e inarcò un sopracciglio.

— E questo è quanto — concluse Scuotivento. — Il Bagaglio ci ha raggiunti, non chiedetemi come. C’è dell’altro vino?

Donnola prese l’otre. — Secondo me, per questa notte hai bevuto abbastanza.

Bravd corrugò la fronte. — L’oro è oro — sentenziò alla fine. — Come può un uomo che ha tanto oro considerarsi povero? Uno è povero o ricco. È questione di logica.

A Scuotivento venne il singhiozzo. Trovava alquanto difficile invocare la logica. — Be’ — disse — ecco ciò che penso, il punto è, be’, conoscete l’ottirone?

I due avventurieri annuirono. Nelle terre intorno al Mare Circolare lo strano metallo iridescente era tenuto in gran conto come il legno del pero sapiente, ed era quasi altrettanto raro. Un uomo in possesso di un ago fatto di ottirone non perdeva mai la strada, perché l’ago puntava sempre in direzione del Centro, del centro del disco, in quanto estremamente sensibile al suo campo magico; miracolosamente rammendava anche le calze.

— Be’, il mio ragionamento è, vedete, che anche l’oro possiede una sorta di campo magico. Una sorta di stregoneria finanziaria. Eco-gnomia. — Ridacchiò.

Donnola si alzò e si stirò. Il sole ormai era già alto e sotto di loro la città era ammantata di foschie e piena di vapori puzzolenti. Anche d’oro, concluse. In punto di morte, perfino un cittadino di Morpork avrebbe abbandonato il suo tesoro per salvarsi la pelle. Era tempo di muoversi.

L’ometto chiamato Duefiori si era addormentato. Donnola lo guardò e scosse la testa.

— La città ci aspetta — disse. — Grazie del piacevole racconto, mago. Che farete adesso? — Diede un’occhiata al Bagaglio, che immediatamente indietreggiò e gli aprì di colpo il coperchio in faccia.

— Be’, adesso non ci sono navi che lasciano la città — chiocciò Scuotivento. — Penso che prenderemo la strada costiera verso Chirm. Io devo badare a lui, vedete. Ma sentite. Non sono stato io…

— Certo, certo — lo calmò Donnola. Si voltò e balzò in sella al cavallo retto da Bravd. Poco dopo i due eroi s’intravedevano appena in una nuvola di polvere, diretti verso la città carbonizzata.

Scuotivento fissava, inebetito, il turista sdraiato in terra. Due turisti sdraiati. Nel suo stato di confusione, un pensiero vagante nelle dimensioni in cerca di una mente che lo albergasse, gli si insinuò nel cervello.

— Ecco un altro bel pasticcio in cui mi hai ficcato — gemette e si abbandonò all’indietro.

— È matto — asserì Donnola. Bravd, che galoppava a poca distanza da lui, annuì.

— Tutti i maghi diventano così. Sono i vapori di mercurio. Gli corrodono il cervello. È colpa anche dei funghi.

— Tuttavia… — disse l’altro. Tirò fuori dalla lunga giubba un disco d’oro con una corta catena. Bravd alzò le sopracciglia.

— Il mago ha detto che l’ometto aveva una specie di disco d’oro che gli diceva che ora era — spiegò Donnola.

— Ha risvegliato la tua cupidigia, amico? Sei sempre stato un ladro provetto. Donnola.

— Già — riconobbe quello con modestia. Toccò una piccola protuberanza sull’orlo del disco e questo si aprì.

Il minuscolo demone imprigionato all’interno alzò gli occhi dal suo piccolo abaco e disse arcigno:

— Mancano solo dieci minuti alle otto dell’orologio. — Il coperchio si richiuse di scatto e mancò poco che le dita di Donnola ci restassero dentro.

Con un’imprecazione l’uomo scagliò lontano nell’erica il misuratore del tempo che molto probabilmente urtò una pietra. In ogni modo, la cassa si spezzò: ci fu un vivido lampo di ottarino e una zaffata di zolfo e l’essere del tempo scomparì nella dimensione demoniaca, qualunque fosse, che era la sua casa.

— Perché l’hai fatto? — disse Bravd che non si era trovato abbastanza vicino da sentire le parole.

— Fatto cosa? — chiese Donnola. — Io non ho fatto niente. Non è accaduto nulla. Andiamo… stiamo perdendo delle buone occasioni!

Bravd annuì. Insieme, girarono le cavalcature e galopparono verso l’antica Ankh e gli onesti incantesimi.