— Quando parlavo d’imbrigliare non volevo dire bardare — scattò Scuotivento. — Volevo dire, be’, volevo semplicemente dire… non so, non mi viene la parola giusta. Penso soltanto che il mondo dovrebbe essere in certo modo più organizzato.
— Questa è solo una fantasia — disse Duefiori.
— Lo so. Questo è il guaio. — Scuotivento sospirò di nuovo. Si poteva anche blaterare di logica pura e di come l’universo fosse governato dalla logica e dall’armonia dei numeri, ma la verità era che il disco stava chiaramente attraversando lo spazio sul dorso di una tartaruga gigante e che gli dei avevano l’abitudine di recarsi alle case degli atei a fracassarne le finestre.
Si udì un suono lieve, appena più forte del ronzio delle api nei ciuffi di rosmarino lungo la strada. Aveva uno strano timbro osseo, come di teschi rotolanti o di contenitori di dadi agitati. Scuotivento si guardò intorno. Vicino non c’era nessuno.
Per qualche ragione la cosa lo preoccupò.
Venne poi una brezza leggera, che crebbe e sparì nel giro di poche pulsazioni, lasciando il mondo immutato salvo per alcuni interessanti particolari.
Per esempio, in piedi in mezzo alla strada c’era adesso un troll dell’alta montagna, cinque metri. Ed era eccezionalmente incollerito. Ciò dipendeva in parte dal fatto che in genere i troll lo sono sempre; in questo caso, però, era esacerbato perché l’improvviso e istantaneo teletrasferimento dal suo rifugio nelle montagne Rammerorck, a quasi cinquemila chilometri di distanza, aveva fatto alzare la sua temperatura corporea a un livello pericoloso, secondo le leggi della conservazione dell’energia. Così scoprì le zanne e caricò.
— Che strana creatura — osservò Duefiori. — È pericolosa?
— Solo per le persone — gridò Scuotivento. Sfoderò la spada, fece un rapido affondo e mancò completamente il colpo. La lama si abbatté sull’erica al lato del sentiero. Vi fu un rumore quasi impercettibile, come di vecchi denti che battessero.
La spada colpì un masso nascosto nell’erica… nascosto, avrebbe detto un osservatore, così bene che un attimo prima pareva non ci fosse affatto. L’arma balzò su come un salmone che salta fuori dell’acqua e mentre ricadeva affondò nella nuca grigia del gigante.
La creatura emise un brontolio e con una zampata inferse una ferita nel fianco del cavallo di Duefiori; l’animale con un nitrito di dolore sfrecciò al riparo degli alberi che fiancheggiavano la strada. Il gigante girò su se stesso e si lanciò in avanti per afferrare Scuotivento.
Allora il suo tardo sistema nervoso gli comunicò che era morto. Per un attimo sembrò sorpreso, quindi crollò e si disintegrò in pietrisco (essendo i troll forme di vita silicee, i loro corpi, al momento della morte, si riconvertono immediatamente in pietra).
"Aargh" pensò Scuotivento quando il suo cavallo indietreggiò terrorizzato. Lui ci si aggrappò con tutte le sue forze mentre l’animale caracollava su due zampe poi, con un nitrito acuto, si voltava e galoppava dentro i boschi.
Il rumore dei suoi zoccoli svanì e nell’aria rimase soltanto il ronzio delle api e, di quando in quando, il fruscio delle ali delle farfalle. Si udiva anche qualcos’altro, un rumore strano per l’ora assolata del mezzogiorno.
Un rumore che ricordava quello dei dadi.
— Scuotivento?
La lunga navata fronzuta fece risuonare la voce di Duefiori da un lato all’altro e alla fine gliela rimandò indietro, inascoltata. Lui se dette su una roccia e cercò di riflettere.
Primo, si era perso. Sebbene irritante, la cosa non lo preoccupava troppo. La foresta si presentava molto interessante e probabilmente albergava elfi o gnomi, forse entrambi. In effetti, già due volte gli era parso di scorgere strane facce verdi sbirciarlo dai rami. Duefiori aveva sempre desiderato incontrare un elfo. In realtà quello che davvero desiderava incontrare era un dragone, ma si sarebbe accontentato anche di un elfo. O di un vero folletto.
Il suo Bagaglio era scomparso e questo era seccante. Aveva anche cominciato a piovere. Si agitò a disagio sulla pietra umida, sforzandosi di considerare la situazione dal lato meno pessimistico. Per esempio, durante la sua folle corsa, il suo cavallo aveva fatto irruzione in un folto di cespugli e aveva disturbato un’orsa con i suoi piccoli, ma aveva proseguito prima che la bestia potesse reagire. Poi d’improvviso si era trovato a galoppare sopra un grosso branco di lupi addormentati, ma di nuovo correva a una tale velocità che il loro furioso ululato ben presto era rimasto indietro. Ciò nondimeno il giorno stava per finire e Duefiori pensò che sarebbe stata una buona idea non restare all’aperto. Forse c’era una… Si lambiccò il cervello per ricordarsi quali rifugi offrivano le foreste, secondo le migliori tradizioni… Forse c’era una casetta fatta di pan di zenzero o che altro?
La roccia era davvero scomoda. Duefiori abbassò gli occhi e per la prima volta notò la strana scultura.
Sembrava un ragno. O era una seppia? Muschio e licheni non permettevano di distinguerne i dettagli. Ma non impedivano di distinguere i caratteri runici scolpiti in basso. Duefiori era in grado di leggerli chiaramente, e dicevano: "Viaggiatore, il tempio ospitale di Bel-Shamharoth si trova a mille passi da qui in direzione del Centro". Era davvero strano, pensò Duefiori: perché, sebbene fosse capace di leggere il messaggio, le lettere gli erano completamente sconosciute. Il messaggio gli arrivava in qualche modo al cervello senza la noiosa necessità di passare attraverso i suoi occhi.
L’ometto si alzò e slegò dall’alberello a cui era legato il suo cavallo divenuto ormai docile. Non era sicuro da che parte si trovasse il Centro, però scorgeva un vecchio sentiero che attraversava il bosco. Questo Bel-Shamharoth sembrava pronto ad aiutare i viaggiatori sperduti. In ogni caso, o il tempio o i lupi. Duefiori annuì risoluto.
È interessante notare come, diverse ore dopo, due lupi che seguivano la traccia di Duefiori, arrivarono alla radura. I loro occhi verdi caddero sulla strana incisione a otto zampe, che poteva essere un ragno o una piovra oppure anche qualcosa di più strano, e decisero immediatamente che non erano poi tanto affamati.
A circa sei chilometri di distanza un mago fallito si teneva appeso per le mani all’alto ramo di un faggio.
Era questo il risultato finale di un’attività frenetica. Prima, un’orsa arrabbiata era sbucata dal sottobosco e con una zampata aveva portato via la gola del suo cavallo. Poi, mentre scappava da quel macello, Scuotivento era incappato in un branco di lupi infuriati sparsi in una radura. I suoi istruttori dell’Università Invisibile, che si erano disperati per l’incapacità di Scuotivento di apprendere la levitazione, sarebbero rimasti sbalorditi nel vedere la velocità con la quale lui aveva raggiunto l’albero più vicino e ci si era arrampicato, senza apparentemente toccarlo.
— Perché sogghigni? — aveva domandato il mago alla figura sul ramo accanto.
— Non posso farne a meno — rispose la Morte. — Adesso saresti così gentile da lasciarti andare? Non posso restare nei paraggi tutto il giorno.
— Io posso — ribatté Scuotivento in tono di sfida.
I lupi ammassati ai piedi dell’albero fissavano interessati il loro prossimo pasto parlare da solo.
— Non farà male — disse la Morte. Se le parole avessero un peso, una sola frase pronunciata dalla Morte sarebbe stata sufficiente a ormeggiare una nave.
Le braccia di Scuotivento non ne potevano più. Lui guardò di traverso la figura leggermente trasparente, simile a un avvoltoio. — Non farà male? — ripeté — Essere fatto a pezzi dai lupi non farà male?
Notò un altro ramo che s’incrociava qualche centimetro più in là con il suo pericolosamente sottile. Se soltanto avesse potuto raggiungerlo…
Si sporse in avanti e allungò una mano.
Il ramo, già inclinato, non si ruppe. Fece soltanto un rumorino sordo e si torse.