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Lui aveva aperto con precauzione il Libro, che era incatenato al piedistallo di ottirone in mezzo al pavimento cosparso di caratteri runici, non per paura che qualcuno lo rubasse, ma per timore che esso scappasse via. Perché era l’Ottavo, così pieno di magia da possedere una vaga sensibilità tutta sua. Infatti un incantesimo era balzato fuori dalle pagine fruscianti e si era insediato negli oscuri recessi del suo cervello. E. a parte il fatto di sapere che si trattava di uno degli Otto Grandi Incantesimi, nessuno scopriva qual era finché non lo pronunciava. Ciò valeva perfino per lo stesso Scuotivento. Ma a volte lo sentiva muoversi fuori vista dietro al suo Ego, aspettando l’occasione propizia…

Davanti all’Ottavo c’era stata un’immagine di Bel-Shamharoth. Non era il Male, perché perfino il Male aveva una certa vitalità. Bel-Shamharoth era il rovescio della medaglia di cui il Bene e il Male sono una sola faccia.

— Il Mangiatore di Anime. Il suo numero sta tra sette e nove; è due volte quattro — citò Scuotivento. terrorizzato. — Oh no! Dov’è il Tempio?

— In direzione del Centro, verso il centro della foresta — rispose la driade. — È molto antico.

— Ma chi sarebbe tanto stupido da venerare Bel… lui? Voglio dire, i demoni , ma lui è il Mangiatore di Anime…

— C’erano… certi vantaggi. E la razza che viveva in questi luoghi aveva strane nozioni.

— Cosa è accaduto, dopo?

— Ho detto che viveva in questi luoghi. — La driade si alzò e gli tese la mano. — Vieni. Io sono Druellae. Vieni con me a osservare il fato del tuo amico. Dovrebbe essere interessante.

— Non sono sicuro che… — cominciò Scuotivento.

La driade girò gli occhi verdi su di lui. — Credi di avere scelta? — chiese.

Una scala, larga come un’autostrada, saliva a spirale su per l’albero, con vaste stanze che si aprivano su ogni pianerottolo. Dappertutto la luce gialla che pareva non provenire da nessuna fonte. Si udiva anche un rumore; Scuotivento si concentrò per cercare d’identificarlo: era un rumore come di tuono lontano o di una cascata distante.

— È l’albero — spiegò la driade.

— Che sta facendo?

— Vive.

— Me lo chiedevo. Voglio dire, ci troviamo davvero in un albero? Sono rimpicciolito? All’esterno la pianta mi pareva così stretta da poterla circondare con le braccia.

— Infatti.

— Uhm, ma eccomi qui al suo interno.

— Infatti.

— Uhm — disse Scuotivento.

Druellae rise. — Posso leggerti nella mente, falso mago! Non sono forse una driade? Non sai che ciò che tu sminuisci col nome di albero, non è altro se non il corrispettivo quadridimensionale dell’intero universo multidimensionale che… No, vedo che non lo sai. Avrei dovuto capire che non eri un vero mago quando ho visto che non avevi una bacchetta.

— L’ho perduta in un incendio — dichiarò automaticamente Scuotivento.

— Né un cappello ricamato con i geroglifici magici.

— È volato via.

— Né un demone familiare.

— È morto. Senti, grazie per avermi salvato ma, se non ti dispiace, devo andare. Se vuoi mostrarmi la strada per uscire…

Qualcosa nella sua espressione lo fece voltare. Alle sue spalle c’erano tre driadi maschi. Nudi come la donna e disarmati. Tuttavia, quest’ultimo dettaglio era irrilevante. Non sembrava che avrebbero avuto bisogno di armi per combattere Scuotivento. Ma piuttosto che avrebbero potuto aprirsi una strada nella dura roccia e sconfiggere, per soprammercato, un reggimento di troll.

I tre bei giganti lo guardavano con aria di stolida minaccia. Sotto la pelle, del colore dei malli di noce, i muscoli si gonfiavano come sacchi di meloni.

Il mago si voltò di nuovo verso Druellae sorridendole debolmente. La vita cominciava a riassumere un aspetto familiare.

— Non sono liberato, vero? Sono catturato, giusto?

— Naturalmente.

— E tu non mi lasci andare. — Era una costatazione.

Druellae scosse la testa. — Hai fatto male all’Albero. Ma sei fortunato. Il tuo amico sta per incontrare Bel-Shamharoth. Tu morirai soltanto.

Da dietro, due mani gli afferrarono le spalle allo stesso modo in cui la radice di un vecchio albero si avvolge senza posa intorno a un ciottolo.

— Naturalmente, con certe formalità — continuò la driade. — Dopo che il Signore di Otto avrà finito con il tuo amico.

Tutto ciò che Scuotivento riuscì a dire fu: — Sai, non avevo mai immaginato che esistessero driadi maschi. Nemmeno dentro una quercia.

Uno dei giganti gli rivolse un sorrisetto malizioso.

Druellae sbuffò. — Stupido! Da dove credi che vengano le ghiande?

Cera un vasto spazio vuoto come un atrio, il soffitto celato dalla nebbia dorata. La scala, che pareva salire all’infinito, lo attraversava.

All’estremità dell’atrio erano raggruppate diverse centinaia di driadi, che si divisero rispettosamente all’arrivo di Druellae. I loro sguardi trapassavano Scuotivento, che veniva spinto avanti con fermezza.

Tra di loro si contavano alcuni maschi, immobili come statue gigantesche tra le piccole femmine intelligenti. "Insetti", pensò Scuotivento. "L’Albero è simile a un alveare."

Ma come mai c’erano le driadi? Per quanto ricordava, il popolo degli alberi si era estinto da secoli, soppiantato dagli umani, come la maggior parte degli altri Popoli del Crepuscolo. Solo gli elfi e i troll erano sopravvissuti all’arrivo dell’Uomo nel mondo-disco. Gli elfi perché di gran lunga più intelligenti e i troll perché sapevano, quanto gli umani, essere cattivi, vendicativi, avidi. Si supponeva invece che le driadi si fossero estinte, insieme agli gnomi e ai folletti.

Lì il rombo di fondo era più forte. Di tanto in tanto, un pulsante bagliore dorato correva su per le pareti traslucide e si perdeva nella nebbia sovrastante. Un qualche potere che aleggiava nell’aria la faceva vibrare.

— Oh mago incompetente! — esclamò Druellae. — Assisti a qualche magia. Non la vostra magia addomesticata, ma la magia delle radici e dei rami, l’antica magia. Magia allo stato naturale. Guarda.

Un gruppo di una cinquantina di driadi indietreggiò, tenendosi per mano, fino a formare la circonferenza di un largo cerchio. Le altre intonarono un canto basso. Poi, a un cenno di Druellae, il cerchio prese a girare in senso antiorario.

Via via che la velocità aumentava, saliva il ritmo complicato del canto. Scuotivento contemplava la scena, affascinato. All’Università aveva sentito parlare dell’Antica Magia, anche se ai maghi era proibita. Sapeva che quando il cerchio ruotava abbastanza rapido in senso inverso al campo magico fisso del mondo-disco nel suo lento ruotare, la conseguente frizione astrale avrebbe accumulato una grande differenza di potenziale e una conseguente scarica di Forza Magica Elementare.

Il cerchio ora si era fatto una macchia indistinta e le pareti dell’Albero risuonavano dell’eco del canto.

Scuotivento sentì il familiare formicolio nella cute della testa, rivelatore del formarsi di una forte carica di incantesimo puro nelle vicinanze. Così non fu troppo stupito quando, pochi secondi più tardi, un raggio di vivida luce di ottarino spuntò dall’invisibile soffitto e si concentrò, con un crepitio, nel centro del cerchio.

Lì formò l’immagine di una collina alberata e spazzata dal vento con un tempio sulla cima. L’occhio era ferito dalla forma di quell’edificio. Scuotivento sapeva che, se si trattava del tempio di Bel-Shamharoth, avrebbe avuto otto lati (Otto era anche il numero di Bel-Shamharoth) e per questa ragione, potendo evitarlo, un mago giudizioso non l’avrebbe mai pronunciato. "Oppure sarete ottati vivi" si ammonivano scherzosamente gli apprendisti. Bel-Shamharoth era specialmente attratto dai dilettanti nelle arti magiche, i quali essendo, per così dire, i rastrellatori delle spiagge del soprannaturale, erano già mezzo impigliati nelle sue reti. Il numero della camera di Scuotivento alla residenza dell’Università era stato 7a. Cosa che non lo aveva meravigliato.