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— Ti dico che è andata in quell’ultimo corridoio a destra — sibilò Kring con una voce simile al raschio di una lama sulla pietra.

— Taci!

— Ho detto soltanto che…

— Chiudi il becco!

E Duefiori…

Si era perso, lo sapeva. O l’edificio era molto più grande di quanto sembrava, o lui si trovava ora in un vasto sotterraneo senza avere disceso una scala oppure, come cominciava a sospettare, le dimensioni interne, più grandi delle esterne, disobbedivano a una regola base dell’architettura. E perché tutte quelle luci strane? Erano ottagoni di cristallo incastrati a intervalli regolari nelle pareti e nel soffitto e spargevano un chiarore sgradevole che metteva in risalto le ombre invece di illuminare.

E chiunque fosse l’autore delle sculture sulle pareti, pensava caritatevole Duefiori, probabilmente aveva bevuto troppo. Per anni.

D’altro canto, si trattava di sicuro di un edificio affascinante. I suoi costruttori erano stati ossessionati dal numero otto. Il pavimento era un mosaico di piastrelle ottagonali: i muri e i soffitti erano disposti in modo che, loro inclusi, i corridoi risultavano di otto lati; inoltre, là dove parte dell’intonaco era caduta, Duefiori notò che anche le pietre avevano otto lati.

— Non mi piace — sentenziò l’omuncolo dalla sua scatola intorno al collo di Duefiori.

— Perché no? — chiese questi.

— È strano.

— Ma tu sei un demone e i demoni non possono chiamare strane le cose. Voglio dire, che cos’è strano per un demone?

— Oh, sai — rispose cauto il diavoletto, guardandosi intorno nervosamente e spostandosi da una zampa artigliata all’altra. — Cose. Roba.

Duefiori gli dette un’occhiata severa. — Quali cose?

Il demone tossì nervosamente. (I demoni non respirano; tuttavia, ogni essere intelligente, che respiri o no, tossisce nervosamente una volta o l’altra nella vita. E, per quanto riguardava il demone, questa era appunto una di quelle volte.)

— Oh, cose — disse con aria infelice. — Cose malvage. Cose di cui non parliamo; è questo il punto che sto cercando di farvi capire, padrone.

Duefiori scosse stancamente la testa. — Vorrei che Scuotivento fosse qui. Lui saprebbe senz’altro cosa fare.

— Lui? — disse sprezzante il demone. — Non riesco a vedere un mago venire qui. Loro non possono avere niente a che fare col numero otto. — Si tappò la bocca con una mano, con aria colpevole.

Duefiori alzò gli occhi al soffitto. — Che è stato? — chiese. — Non hai sentito qualcosa?

— Io? Sentito? No! Niente! — Saltò dentro e sbatté la porta. Duefiori bussò. Si aprì uno spiraglio.

— Sembrava una pietra che si muovesse — spiegò. La porta si richiuse di colpo. Duefiori alzò le spalle.

— Probabilmente questo posto sta crollando — disse a se stesso e si alzò. — Ehi! — gridò. — C’è qualcuno là?

LA, La, la, risposero i tunnel oscuri.

— Salve? — provò di nuovo.

VE, Ve, ve.

— So che qui c’è qualcuno, vi ho appena sentito giocare a dadi!

ADI, Adi, adi.

— Sentite, ho appena…

Duefiori s’interruppe. Il motivo era il punto di luce brillante che si era materializzato a qualche centimetro dai suoi occhi. Crebbe rapidamente e dopo pochi secondi si era trasformato nella minuscola silhouette di un uomo. Cominciò allora a fare un rumore o, piuttosto, Duefiori cominciò a udire il rumore che era andato facendo tutto il tempo. Era come la vibrazione di un grido, prolungata per un lungo istante.

L’uomo iridescente adesso aveva le dimensioni di una bambola, una forma distorta, che planava lenta, sospesa a mezz’aria. Duefiori si chiedeva perché mai gli era venuta in mente la frase "la vibrazione di un grido" e avrebbe voluto non averci pensato.

La sagoma intanto prendeva l’aspetto di Scuotivento. La bocca del mago era spalancata e il suo volto era illuminato dalla luce di… che cosa? Di strani soli, si ritrovò a pensare Duefiori. Soli che gli uomini normalmente non vedono. Rabbrividì.

Adesso il mago, sempre piroettante in aria, aveva raggiunto metà della dimensione normale. La crescita si fece più rapida, vi fu un momento di grande tensione, un soffio d’aria e un’esplosione di suono. Con un urlo, Scuotivento precipitò dall’aria. Batté violentemente a terra, si strozzò, poi rotolò su se stesso, la testa nascosta nelle braccia e il corpo tutto raggomitolato.

Quando la polvere si fu depositata, Duefiori allungò con precauzione una mano e batté sulla spalla del mago. La palla umana si raggomitolò ancora di più.

— Sono io — disse Duefiori. Il mago si srotolò di un centimetro.

— Cosa?

— Io.

In un solo movimento Scuotivento si srotolò, saltò su davanti all’ometto e lo afferrò disperatamente per le spalle. Aveva gli occhi spalancati e lo sguardo folle.

— Non ditelo! — sibilò. — Non ditelo e così potremmo uscirne!

— Uscirne? Come ci siete entrato? Non sapete…

— Non ditelo!

Duefiori arretrò davanti a quel pazzo.

— Non ditelo!

— Non dire che cosa?

— Il numero!

— Numero? — ripeté Duefiori. — Ehi, Scuotivento…

— Sì, numero. Tra sette e nove. Quattro più quattro.

— Come, ot…

Le mani di Scuotivento gli tapparono la bocca. — Ditelo e siamo condannati. Non ci pensate, va bene? Fidatevi di me!

— Non capisco — si lamentò Duefiori. Scuotivento si rilassò un poco, vale a dire che. in confronto a lui, una corda di violino era come una ciotola di gelatina.

— Forza — disse. — Cerchiamo di uscire. Ci proverò e vi guiderò.

Dopo la prima Età della Magia, nel mondo-disco l’eliminazione degli zibaldoni divenne un serio problema. Un incantesimo è un incantesimo anche se imprigionato temporaneamente in pergamena e inchiostro. Esso ha efficacia. Ciò non rappresenta un problema finché il proprietario del libro resta in vita, ma alla sua morte esso diventa una fonte di potere incontrollato non facile da disinnescare.

In breve, i libri d’incantesimi lasciano uscire la magia. Si sono tentate varie soluzioni. I paesi vicini all’Orlo hanno semplicemente zavorrato i libri dei maghi morti con pentalfa di piombo e li hanno scaraventati giù dal Bordo. Vicino al Centro, le alternative possibili erano meno soddisfacenti. Una era quella d’infilare i libri in recipienti di ottirono sottoposto a polarizzazione negativa e affondarli nelle profondità incommensurabili del mare (la loro sepoltura nelle caverne terrestri era stata proibita dopo che alcune province si erano lamentate di alberi che camminavano e di gatti a cinque teste), ma non molto tempo dopo la magia ne trasudava e alla fine i pescatori si lamentavano di banchi di pesci invisibili o di molluschi immateriali.

Una soluzione temporanea fu la costruzione, in vari centri di tradizione magica, di grandi ambienti fatti di ottirone denaturato, inaccessibile alla maggior parte delle forme di magia. Lì era possibile immagazzinare i volumoni più critici finché la loro potenza si fosse attenuata.

Fu così che all’Università Invisibile si trovava l’Ottavo, il più grande di tutti, già di proprietà del Creatore dell’Universo. Era questo il libro che una volta Scuotivento aveva aperto per scommessa. Bastò che guardasse una pagina per un secondo per attivare i vari allarmi, ma fu sufficiente perché un incantesimo balzasse fuori e s’insediasse nella sua memoria come un rospo sotto una pietra.

— E allora? — chiese Duefiori.

— Oh, mi hanno trascinato fuori. Mi hanno picchiato, naturalmente.

— E nessuno conosce l’effetto dell’incantesimo?

Scuotivento scosse la testa. — È svanito dalla pagina — rispose. — Nessuno lo conoscerà finché non lo dirò io. O finché io muoia, naturalmente. Allora diciamo che uscirà da solo. Per quello che so, esso ferma l’universo o mette fine al Tempo, o qualcosa del genere.

Duefiori gli batté sulla spalla. — Inutile affliggersi — disse allegro. — Diamo un’altra occhiata per trovare il modo di uscire.