— I draghi non esistono — affermò Hrun. — Codice di Chimeria ha ucciso l’ultimo duecento anni fa. Non so che cosa vediamo, ma non sono draghi.
— Ma ci hanno portato nell’aria! In quella sala dovevano essercene a centinaia…
— Suppongo che fosse semplicemente una magia — dichiarò il barbaro.
— Be’, a vederli sembravano draghi — ribatté Duefiori con tono di sfida. — Ho sempre desiderato vederli, fin da quando ero bambino. Dragoni che volano nel cielo, soffiando fiamme…
Erano soliti strascinarsi nelle paludi e simili e il loro fiato puzzava. Non erano nemmeno molto grandi. E raccoglievano legna da ardere.
— Io ho sentito che raccoglievano tesori — obiettò Duefiori.
— E legna da ardere. Ehi — aggiunse Hrun animandosi — hai notato tutte quelle sale che ci hanno fatto attraversare? Davvero suggestive. C’erano un sacco di oggetti d’oro e inoltre certi di quegli arazzi devono valere una fortuna… — Si grattò il mento con aria pensierosa e il rumore di un porcospino attraversò un ciuffo di ginestra spinosa.
— E adesso che succede? — chiese Duefiori.
Hrun si stuzzicò l’orecchio con un dito che guardò poi meditabondo. — Oh, mi aspetto che fra un minuto apriranno la porta e mi trascineranno nell’arena di un tempio dove lotterò forse contro due ragni giganti e uno schiavo di due metri proveniente dalla giungla di Klatch e poi libererò una principessa legata all’altare e ammazzerò un po’ di guardie o roba del genere e poi la fanciulla mi mostrerà il passaggio segreto per andare via da quel luogo e libereremo due cavalli e scapperemo via con il tesoro. — Hrun appoggiò la testa sulle mani intrecciate guardò il soffitto, fischiettando piano.
— Tutto questo? — domandò Duefiori.
— Di solito.
Duefiori sedette sul lettuccio e cercò di riflettere. Compito difficile, perché aveva la mente tutta presa dai draghi.
Dragoni!
Sin da quando aveva due anni era stato affascinato dalle figure di quei fieri animali nel Libro di Tavole dell’Ottarino. Sua sorella gli aveva detto che in realtà non esistevano e ricordava com’era stato amaramente deluso. Se il mondo non conteneva quelle belle creature, voleva dire che era un mondo assai imperfetto, aveva deciso. Più tardi, aveva fatto il suo apprendistato con Ninereeds il Mastrocontabile, che nel suo grigiore era tutto ciò che i draghi non erano, e non c’era più stato tempo per sognare.
Però in questi draghi qualcosa non andava: erano troppo piccoli e lustri, paragonati a quelli che lui vedeva con l’occhio della mente. I draghi avrebbero dovuto essere grossi e verdi e muniti di artigli e esotici e sprizzanti fiamme… grossi e verdi con lunghe acuminate…
Qualcosa si mosse nell’angolo più lontano e buio del torrione. Svanì quando lui girò la testa, ma gli era parso di udire un rumore lievissimo come di artigli che grattassero la pietra.
— Hrun? — chiamò.
Dall’altro giaciglio venne un ronfo.
Duefiori si spostò nell’angolo e tastò con precauzione le pietre in cerca di un pannello segreto. In quel momento la porta si spalancò e sbatté contro il muro. Una mezza dozzina di guardie si precipitarono dentro, si disposero ad ala e piegarono un ginocchio, con le armi puntate esclusivamente su Hrun. Ripensandoci più tardi, Duefiori se ne sentiva offeso.
Hrun russava.
Una donna entrò nella cella a grandi passi. Non molte donne sono capaci di farlo in maniera convincente, ma lei ci riuscì. Diede una rapida occhiata a Duefiori, come si guarda un mobile, poi fissò l’uomo steso sul letto.
La donna indossava la stessa bardatura dei cavalieri, ma nel suo caso molto più ridotta. Questa e la magnifica criniera di capelli rossi che le arrivava alla vita erano la sua unica concessione a quella che perfino nel mondo-disco passava per decenza. Aveva anche un’espressione pensierosa.
Con un ronfo. Hrun si girò supino e continuò a dormire.
La donna estrasse dalla cintura con precauzione, come se maneggiasse uno strumento di rara delicatezza, un sottile pugnale nero, e lo abbassò.
Prima che la lama fosse a metà del suo arco, la mano destra di Hrun si mosse così rapida che sembrò viaggiare tra due punti nello spazio senza nemmeno spostarsi nell’aria, e si chiuse di scatto sul polso della donna. L’altra mano tastava febbrilmente in cerca di una spada che non c’era…
Hrun si svegliò.
— Gngh? — e guardò la donna con cipiglio perplesso. Poi scorse gli arcieri.
— Lasciami andare — disse la donna. La sua voce era calma, tranquilla, cristallina. Hrun aprì lentamente il pugno.
Lei indietreggiò. Si massaggiava il polso e fissava Hrun come un gatto fissa la tana del topo.
— Così — disse alla fine — hai superato la tua prima prova. Come ti chiami, barbaro?
— Chi chiami barbaro? — ringhiò Hrun.
— È ciò che voglio sapere.
Hrun contò lentamente gli arcieri e i muscoli delle sue spalle si rilassarono. — Io sono Hrun di Chimeria. E tu?
— Liessa la Signora dei draghi.
— Sei tu che domini in questo posto?
— Questo è da vedere. Hai l’aria di un mercenario, Hrun di Chimeria. Potrei servirmi di te, se superi le prove, naturalmente. Ce ne sono tre. Hai superato la prima.
— Come sono le altre… — Hrun s’interruppe; le sue labbra si muovevano senza che ne uscisse alcun suono. Infine azzardò: — …due?
— Pericolose.
— E la mercede?
— Sostanziosa.
— Scusatemi — disse Duefiori.
— E se non supero queste prove? — proseguì Hrun, ignorandolo Tra Hrun e Liessa l’aria crepitava con piccole esplosioni di carisma mentre si fissavano.
— Se avessi fallito la prima, adesso saresti morto. È la penalità da pagare.
— Uhm, sentite — cominciò Duefiori. Liessa gli diede un’occhiata e sembrò notarlo per la prima volta.
— Portatelo via — disse con calma e si voltò di nuovo verso Hrun. Due delle guardie si misero l’arco in spalla, afferrarono Duefiori per i gomiti, lo sollevarono da terra e uscirono al trotto.
— Ehi — disse Duefiori, mentre quelli si affrettavano per il corridoio — dove — (mentre si fermavano davanti a un’altra porta) è il mio (mentre l’aprivano) — Bagaglio? — Atterrò su un mucchio di paglia. La porta si richiuse con un tonfo e il rumore dei chiavistelli che venivano tirati ne sottolineò l’eco.
Hrun, nell’altra cella, non aveva battuto ciglio. — Okay, qual è la seconda prova?
— Devi uccidere i miei due fratelli.
Hrun ci pensò su. — Tutti e due allo stesso tempo o uno dopo l’altro?
— Consecutivamente o simultaneamente.
— Cosa?
— Uccidili e basta — rispose lei con voce tagliente.
— Sono bravi combattenti?
— Rinomati.
— Così in compenso…
— Mi sposerai e diventerai Signore del Wyrmberg.
Seguì una lunga pausa. Hrun aggrottò le sopracciglia nello sforzo, insolito per lui, di riflettere.
— Avrò te e questa montagna? — chiese finalmente.
— Sì. — Lei lo guardò dritto negli occhi e le sue labbra fremettero. — La mercede ne vale la pena, te lo assicuro.
Hrun abbassò gli occhi sugli anelli che le ornavano le dita. Le pietre erano grandi, diamanti di un azzurro lattiginoso incredibilmente rari, dai giacimenti di argilla di Mithos. Quando riuscì a staccarne lo sguardo, Liessa lo fissava furente.
— Tanto calcolatore — esclamò con voce stridente. — Hrun il Barbaro, il coraggioso che si avventurerebbe nelle fauci stesse della Morte!
Hrun alzò le spalle. — Sicuro — disse. — Per la sola ragione che così si potrebbero rubare i suoi denti d’oro. — Allungò un braccio, brandì il lettino di legno e lo scagliò contro gli arcieri; quindi si slanciò baldamente anche lui, abbatté un uomo con un colpo e all’altro strappò via l’arma. Un momento dopo era tutto finito.
Liessa non si era mossa.
— Allora? — disse.
— Allora cosa?
— Intendi uccidermi?
— Che? Oh no. No. Per me, sai, è una specie di abitudine. Giusto per tenermi in esercizio. Allora dove sono questi fratelli? — Sogghignò.