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Seduto sulla paglia, Duefiori contemplava il buio e si chiedeva da quanto tempo si trovava lì. Ore, almeno. Giorni, probabilmente. Forse anni, e lui semplicemente l’aveva dimenticato.

No, pensieri del genere erano inutili. Cercò di pensare ad altro: erba, alberi, aria fresca, draghi. Draghi…

Si udì nell’oscurità un leggerissimo sfregamento. La fronte di Duefiori s’imperlò di sudore.

Insieme a lui nella cella c’era qualcosa. Qualcosa che emetteva un fruscio eppure dava l’impressione di una grandezza smisurata. Sentì l’aria smuoversi. Alzò un braccio. Vi fu una leggera cascata di scintille che annunciavano la presenza di un campo magico. Duefiori desiderò ardentemente che ci fosse una luce.

Una goccia di fiamma gli passò sulla testa e andò a colpire la parete opposta; le rocce riverberarono un calore da fornace e lui si trovò di fronte un dragone che occupava oltre la metà della cella.

— Ubbidisco, signore — disse una voce nella sua testa.

Al riverbero della pietra che crepitava e lanciava scintille, Duefiori vide la sua immagine riflessa in due enormi occhi verdi. Il dragone era una creatura multicolore, dotata di corna e di aculei e agile come quello presente nel suo ricordo. Un vero dragone. Le sue ali ripiegate erano ciò nondimeno abbastanza larghe da sfiorare le pareti della stanza e lui giaceva in mezzo ai suoi talloni.

— Ubbidire? — disse l’ometto con voce in cui vibravano terrore e diletto.

— Naturalmente, signore.

Il chiarore svanì. Duefiori puntò un dito tremante verso il punto in cui ricordava esserci la porta e ordinò: — Aprila!

Il drago sollevò l’enorme testa. Di nuovo emise una palla di fuoco ma questa volta, mentre i muscoli del collo gii si contraevano, il colore della fiamma passò dall’arancione al giallo, dal giallo al bianco e finalmente all’azzurro pallidissimo: a questo punto era diventata anche assai tenue e dove toccava la parete, la roccia si sgretolava; quando raggiunse la porta, il metallo esplose in una pioggia di scintille infuocate.

Sulle pareti si disegnarono guizzanti ombre nere. Per un attimo il metallo incandescente ribollì e poi la porta cadde in due pezzi nel corridoio. La fiamma si spense con una rapidità sconcertante quasi quanto la sua apparizione.

Duefiori passò con precauzione sulla porta che si andava raffreddando e scrutò i! corridoio nei due sensi. Era vuoto.

Il drago lo seguì. Il pesante telaio della porta gli causò qualche difficoltà che lui superò con una spallata che spaccò il legno e lo buttò da una parte. La creatura attendeva, gli occhi fissi su Duefiori, la pelle increspata e guizzante mentre tentava di aprire le ali nello stretto corridoio.

— Come sei arrivato qui? — gli domandò Duefiori.

— Mi hai chiamato tu, padrone.

— Non ricordo di averlo fatto.

— Nella tua mente. Mi hai chiamato nella tua mente — rispose il drago pazientemente.

— Vuoi dire che io ti ho pensato ed eccoti lì?

— Sì.

— Era magia?

— Sì.

— Ma ho pensato ai draghi tutta la mia vita!

— In questo luogo la frontiera tra il pensiero e la realtà probabilmente è un po’ confusa. So soltanto che una volta non esistevo e poi tu mi hai pensato ed ero lì. Dunque, naturalmente, sono ai tuoi ordini.

— Splendido!

Una mezza dozzina di guardie scelsero quel momento per girare l’angolo del corridoio. Si fermarono, a bocca aperta. Poi una si riprese quel tanto da imbracciare la sua balestra e tirare.

Il petto del drago si gonfiò e la freccia esplose a mezz’aria in frammenti fiammeggianti. Le guardie se la diedero a gambe. Una fiammata spazzò le pietre sulle quali si trovavano un attimo prima.

Duefiori guardò ammirato l’animale. — Sai anche volare?

— Naturalmente.

Dopo avere dato un’occhiata su e giù per il corridoio, Duefiori decise di non seguire le guardie. Sapeva di essersi già totalmente perso e quindi qualsiasi direzione andava bene. Sgusciò accanto al drago e si allontanò rapido, mentre l’enorme bestia si girava con difficoltà per seguirlo.

Proseguirono per una serie di corridoi che s’incrociavano come un labirinto. A un certo momento a Duefiori sembrò di udire delle grida in lontananza alle loro spalle, ma presto svanirono. A volte nell’oscurità si intravedeva l’arco scuro di un portale diroccato. Qua e là, la luce filtrava fioca attraverso le fessure, riflessa dai grandi specchi incastrati negli angoli del corridoio. Altre volte, invece, da una fonte lontana di luce veniva un chiarore più brillante.

Mentre scendeva una scalinata sollevando nuvole di polvere argentea, Duefiori trovò strano che lì i tunnel fossero molto più larghi e anche meglio costruiti. Nelle nicchie delle pareti c’erano delle statue e qua e là erano appesi arazzi sbiaditi ma interessanti. Rappresentavano soprattutto draghi, draghi a centinaia, in volo o appollaiati sugli anelli, draghi cavalcati da uomini che cacciavano il cervo e talora altri uomini. Duefiori toccò con precauzione uno degli arazzi. Il tessuto si sbriciolò immediatamente nell’aria asciutta e calda; restarono soltanto brandelli penzolanti con la trama intessuta di fili d’oro.

— Mi domando perché hanno lasciato tutto questo? — disse.

— Non lo so — rispose cortesemente una voce nella sua testa. L’ometto si voltò a guardare il muso cavallino e squamoso. — Come ti chiami, drago? — gli chiese.

— Non lo so.

— Ti chiamerò Ninereeds.

— Allora questo è il mio nome.

Passarono attraverso la polvere che tutto invadeva in una serie di enormi sale scure ricavate dalla roccia. E con molta perizia: dal pavimento al soffitto le pareti erano una massa di statue, mascheroni, bassorilievi e snelle colonne, che proiettavano ombre semoventi quando, su richiesta di Duefiori, il drago compiacente le illuminava. Dappertutto c’era uno strato di soffice polvere. Nessuno da secoli veniva in quelle morte caverne.

Poi Duefiori vide il sentiero che conduceva a un ennesimo tunnel scuro. Qualcuno lo usava regolarmente e di recente. Era una pista stretta nel grigio lenzuolo.

Duefiori la seguì. Conduceva attraverso altre sale spaziose e corridoi tortuosi, larghi abbastanza per un dragone (e sembrava che un tempo i draghi fossero passati di lì: c’era una stanza piena di finimenti corrosi, a dimensione di draghi, e un’altra con piastre e cotte di maglia abbastanza grandi per un elefante). Alla fine si trovarono davanti a due porte di bronzo, tanto alte da scomparire nella semioscurità. Davanti a Duefiori, all’altezza del petto, c’era una piccola maniglia in forma di drago.

La toccò e le porte si aprirono istantaneamente e, cosa sconcertante, senza il minimo rumore.

All’istante delle scintille crepitarono nei capelli di Duefiori e vi fu un soffio improvviso di vento caldo e asciutto che non disturbò la polvere come avrebbe fatto un vento ordinario. Ma la sferzò per un momento e ne ricavò delle sconvolgenti forme semiumane, prima di depositarsi di nuovo a terra. Nelle orecchie di Duefiori si produsse lo strano e penetrante battito delle Cose imprigionate nella cella lontana delle Dimensioni, al di là del fragile schermo del tempo e dello spazio. Apparvero ombre là dove non c’era nulla per produrle. L’aria ronzava come un alveare.

Per farla breve, intorno a lui vibrava una forte scarica di magia.

La camera al di là della porta era illuminata da un pallido chiarore verde. Ammucchiate lungo le pareti, ognuna sulla sua mensola di marmo, c’erano file su file di bare. Nel centro della sala, su una pedana, c’era una poltrona di pietra sulla quale era accasciata una figura che non si mosse, ma disse con voce vecchia e fragile: — Entra, giovanotto.

Duefiori si fece avanti. La figura sullo scanno era umana, per quanto era possibile giudicare in quella luce tetra, ma c’era qualcosa nella sua positura sgraziata per cui l’ometto era contento di non distinguerla meglio.

— Sono morto, sai — annunciò in tono discorsivo una voce proveniente da quella che Duefiori sperava ardentemente fosse una testa. — Suppongo che te ne sei accorto.