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— Posso bruciarti — disse Liartes.

I cespugli rimasero immobili.

— Forse ti nascondi in quel cespuglio di agrifoglio laggiù?

Il cespuglio di agrifoglio diventò una palla di fuoco.

— Sono sicuro di vedere del movimento in quelle felci. Le felci si mutarono in scheletri di bianca cenere.

— La stai solo tirando in lungo, barbaro. Perché non arrenderti adesso? Ho bruciato un sacco di gente. Non fa male nemmeno un po’ — dichiarò Liartes scrutando i cespugli.

Il drago continuava ad avanzare nel sottobosco, bruciando ogni cespuglio e ciuffo di felci. Liartes tirò fuori le spade e attese.

Hrun saltò giù da un albero e si mise a correre. Alle sue spalle il drago avanzava ruggendo e abbattendo i cespugli mentre cercava di girare, ma Hrun correva e correva, lo sguardo fisso su Liartes, un ramo morto nelle mani.

È un fatto poco conosciuto ma vero che di solito un bipede può battere un quadrupede su un percorso breve, semplicemente per il tempo che quest’ultimo impiega a districare le zampe. Hrun udì alle sue spalle lo sfregamento degli artigli e poi un rumore sordo minaccioso. Aperte le ali a metà, il drago stava tentando di volare.

Hrun si precipitò contro il signore dei draghi; la spada di Liartes scattò in alto, ma urtò contro il ramo. Allora il barbaro si scagliò in avanti a testa bassa e i due uomini rotolarono a terra.

Il drago ruggiva.

Hrun sferrò una ginocchiata con precisione anatomica e Liartes urlò, ma riuscì ad assestargli un colpo che ruppe di nuovo il naso del barbaro.

Hrun si liberò e si rimise in piedi per trovarsi davanti il muso cavallino del drago dalle narici dilatate. Allungò un calcio a Liartes, che stava tentando di drizzarsi, e lo colse sulla tempia. L’uomo si accasciò.

Il drago svanì. La palla di fuoco che stava fluttuando verso Hrun scolorò finché, quando lo raggiunse, non era più che un soffio di aria calda. Il silenzio intorno era rotto soltanto dal crepitio dei cespugli che ardevano.

Hrun si caricò in spalla il signore dei dragoni svenuto e ritornò al trotto all’arena. A metà strada trovò Lio!rt sdraiato sul terreno, con una gamba piegata a un angolo innaturale. Si chinò e con un grugnito se lo mise sulla spalla libera.

Liessa e il Custode della Tradizione attendevano su una piattaforma eretta in fondo alla radura. La donna si era completamente ripresa e guardò senza scomporsi Hrun che gettava i due uomini sui gradini davanti a lei. La gente intorno osservava la scena in posa deferente, come una corte.

— Uccidili — ordinò lei.

— Uccido quando mi garba — ribatté lui. — In ogni caso, non è giusto uccidere le persone quando sono svenute.

— Non riesco a pensare a un momento più adatto — dichiarò il Custode. Liessa emise un suono sprezzante.

— Allora li manderò in esilio — disse. — Una volta fuori portata dalla magia del Wyrmberg, non avranno più il Potere. Saranno dei semplici briganti. Ti sta bene?

— Sì.

— Mi sorprende che tu sia così misericordioso, ba… Hrun.

Lui alzò le spalle. — Un uomo nella mia posizione non può essere altro, deve considerare la propria immagine. — Si guardò intorno. — Allora, dov’è la prossima prova?

— Ti avverto che è pericolosa. Se vuoi, puoi rinunciare ora. Tuttavia, se superi la prova, diventerai Signore del Wyrmberg e, naturalmente, mio legittimo consorte.

Hrun incontrò il suo sguardo. Pensò a quella che era stata la sua vita fino a quel momento. All’improvviso gli parve che fosse stata piena di lunghe notti umide passate a dormire sotto le stelle, di combattimenti disperati con troll, guardie, un numero infinito di banditi e cattivi sacerdoti e, almeno in tre occasioni, veri e propri semidei… e per che cosa? Be’, per un bottino considerevole, doveva ammettere, ma dov’era andato? Liberare le fanciulle prigioniere procurava una certa passeggera ricompensa ma, di regola, lui aveva finito per sistemarle da qualche parte in una città con una bella dote. Dopo un po’, infatti, le più deliziose ex donzelle diventavano possessive e nutrivano poca simpatia nei confronti dei suoi sforzi per liberare le loro sorelle in difficoltà.

In breve, in realtà la vita lo aveva lasciato con poco più della sua reputazione e una rete di cicatrici. Governare poteva essere divertente. Hrun sogghignò. Con una base come quella, tutti quei draghi e una buona schiera di combattenti, un uomo poteva diventare un vero contendente.

Inoltre, la ragazza non era male.

— La terza prova? — disse Liessa.

— Devo di nuovo essere disarmato?

La donna sollevò le mani a togliersi l’elmo e liberò una cascata di rossi capelli inanellati. Poi aprì la spilla che le tratteneva la tunica. Sotto, era nuda.

Hrun lasciò vagare lo sguardo sul corpo di lei e intanto due macchine calcolatrici immaginarie si mettevano in moto nella sua mente. Una valutava l’oro dei bracciali, i grossi rubini che adornavano gli anelli delle dita dei piedi, il diamante incastonato nell’ombelico e le due trottoline d’argento filigranato. L’altra era inserita direttamente nella sua libidine. Entrambe producevano dei talloncini che gli piacevano enormemente.

La donna gli offrì un bicchiere di vino e disse con un sorriso: — Non credo.

— Non ha tentato di liberarti — gli fece notare Scuotivento come ultima risorsa.

Si teneva aggrappato alla vita di Duefiori mentre il drago compiva lenti giri e il mondo sembrava inclinarsi a un angolo pericoloso. Avere appreso che il dorso squamoso che lui cavalcava esisteva soltanto come una sorta di sogno tridimensionale ad occhi aperti non diminuiva in nulla, si era presto convinto, il suo tremendo senso di vertigine. Senza volerlo, continuava a pensare ai possibili risultati di una distrazione da parte di Duefiori.

— Nemmeno Hrun ce l’avrebbe fatta contro quelle balestre — affermò altezzoso l’ometto.

Il drago volava alto sul bosco dove loro tre avevano trascorso la notte umida e scomoda e intanto il sole sorgeva all’orizzonte del disco. All’istante, le ombre grigie e blu che precedono l’alba si trasformarono in un brillante fiume bronzeo che scorreva sul mondo e si tramutava in oro là dove toccava il ghiaccio o l’acqua o una diga luminosa. (A causa della densità del campo magico che circondava il disco, la luce si muoveva a velocità subsonica. Tale interessante proprietà, per esempio, era bene utilizzata dal popolo Sorca del Grande Nef il quale, nel corso dei secoli, aveva costruito delle dighe intricate ed estremamente accurate e vallate dai fianchi ricoperti di lucente silicio per catturare la luce del sole e in qualche modo immagazzinarla. Gli scintillanti bacini del Nef, straripanti dopo diverse settimane d’ininterrotto bel tempo, visti dall’alto costituivano una visione veramente magnifica ed è quindi un peccato che Scuotivento e Duefiori non guardassero in quella direzione.)

Di fronte a loro il trionfo dell’impossibile, il magico Wyrmberg, si stagliava contro il cielo. Una vista niente male, finché Scuotivento non voltò la testa e non vide l’ombra della montagna stendersi lentamente sulla distesa di nuvole del mondo…

— Che cosa vedi? — domandò Duefiori al dragone.

— Vedo combattere in cima alla montagna.

Duefiori si rivolse al compagno: — Vedi? Probabilmente in questo preciso momento Hrun sta combattendo per salvarsi la vita.

Scuotivento non rispose. Dopo un po’ l’ometto si voltò a guardarlo. Il mago aveva lo sguardo perduto nel vuoto e muoveva in silenzio le labbra.

— Scuotivento?

Gli rispose un leggero brontolio.

— Scusami, cosa hai detto? — chiese Duefiori.

— …fino in fondo… la grande cascata… — borbottava Scuotivento. I suoi occhi misero a fuoco la scena, ebbero un’espressione sconcertata, poi si spalancarono terrorizzati. Aveva fatto l’errore di guardare giù.

— Aargh — esclamò e cominciò a scivolare. Duefiori lo afferrò.

— Che cosa c’è?

Scuotivento si sforzò di chiudere gli occhi, ma la sua immagine non poteva celarsi dietro le palpebre e continuò a guardare.