Выбрать главу

Marchesa e i maghi idrofobi restarono indietro e le guardie con i prigionieri si avviarono di buon passo per un sentiero tortuoso tra le case-navi. Ben presto la strada in discesa li portò in una specie di palazzo, mezzo scavato nella roccia dello strapiombo. C’erano gallerie vivacemente illuminate e cortili sotto il cielo distante. Alcuni uomini anziani, dalle vesti coperte di simboli misteriosi, guardarono passare il sestetto. Più volte Scuotivento notò degli idrofobi (la loro innata espressione di disgusto per i propri fluidi corporei era inequivocabile) e qua e là uomini che camminavano faticosamente, certo degli schiavi. Non ebbe tempo di riflettere sul fatto, perché davanti a loro si aprì una porta ed essi furono spinti, con gentile fermezza, in una sala. Poi la porta si richiuse alle loro spalle.

Riacquistato l’equilibrio, i due si guardarono intorno.

— Oddio — esclamò Duefiori alla fine, dopo aver cercato inutilmente di trovare un’espressione migliore.

— È la cella di una prigione? — si domandò ad alta voce il mago.

— Tutto quest’oro e queste sete e questa roba — aggiunse l’ometto. — Non ho mai visto nulla del genere!

Al centro della stanza riccamente decorata, su un tappeto così folto che Scuotivento lo calpestava con precauzione per timore fosse un qualche animale irsuto il quale amasse stendersi sul pavimento, c’era un lungo tavolo lucente carico di cibo. Per la maggior parte erano piatti di pesce, inclusa l’aragosta più grossa e più elaboratamente preparata che lui avesse mai visto; ma c’era anche una quantità di ciotole e piatti grandi ricolmi di strane creazioni mai viste. Il mago prese con cautela una specie di frutto color porpora cosparso di cristalli verdi.

— Ricci di mare canditi — disse una voce gracchiante e allegra alle sue spalle. — Una grande leccornia.

Lui la pose giù in fretta e si voltò. Un vecchio era spuntato fuori dalle pesanti cortine. Era alto e magro, dall’aspetto quasi benevolo paragonato a certi visi che Scuotivento aveva visto di recente.

— Anche la purea di oloturie è buonissima — proseguì l’altro. — Quei pezzetti verdi sono giovani stelle di mare.

— Grazie di avermelo detto — disse debolmente Scuotivento.

— In realtà, sono piuttosto buone — assicurò Duefiori, a bocca piena. — Credevo ti piacessero i frutti di mare.

— Sì, lo credevo anch’io. Questo vino cos’è, occhi di polpo pigiati?

— Uva di mare — lo informò il vecchio.

— Magnifico. — Scuotivento ne mandò giù un bicchiere. — Un po’ salato, forse.

— L’uva di mare è una specie di piccola medusa — spiegò lo straniero. — Adesso penso sia ora di presentarmi. Perché il tuo amico è diventato di quello strano colore?

— Shock culturale, immagino — rispose Duefiori. — Come hai detto di chiamarti?

— Non l’ho detto. Mi chiamo Garhartra. Vedi, io sono preposto agli ospiti: ho il gradito compito di assicurarmi che il vostro soggiorno qui sia il più piacevole possibile. — Fece un inchino. — Se c"è qualcosa che desiderate, non avete che da dirlo.

Duefiori si sedette su una bella poltrona di madreperla con un bicchiere di vino oleoso in una mano e una seppia cristallizzata nell’altra. Aggrottò le sopracciglia. — Credo mi sia sfuggita qualcosa — disse. — Prima ci hanno detto che saremmo diventati degli schiavi.

— Una vile bugia — lo interruppe Garhartra.

Dal fondo del lungo tavolo venne la voce di Scuotivento: — Credi che questi biscotti siano fatti di un ingrediente nauseante?

— …e poi siamo stati liberati con grande dispendio di magia…

— Sono fatti di alghe pressate — rispose il vecchio in tono seccato.

— …ma in seguito siamo stati minacciati, pure con grande dispendio di magia…

— Sì, lo pensavo anch’io — dichiarò il mago. — Certo hanno il sapore delle alghe… se uno fosse tanto masochista da mangiarne.

— …e poi siamo stati presi dalle guardie senza tante cerimonie e buttati qui dentro…

— Spinti gentilmente — lo corresse Garhartra.

— …che si è rivelato essere questa sala incredibilmente ricca con tutto questo cibo e un uomo che ci dice che si dedica a farci felici — concluse Duefiori. — C’è una mancanza di logica in tutto questo.

— Già — disse Scuotivento. — Lui vuole sapere se ricomincerete a essere antipatici con noi. Questa è soltanto una pausa per la colazione?

Garhartra alzò le mani con un gesto rassicurante. — Prego, prego — protestò. — Era necessario portarvi qui il più presto possibile. Certamente non abbiamo intenzione di farvi schiavi. Vi prego di tranquillizzarvi su questo punto.

— Ottimo — disse Scuotivento.

— Sì, infatti sarete sacrificati — continuò l’altro placidamente.

— Sacrificati? Ci ucciderete? — gridò il mago.

— Uccidervi? Sì, naturale. Certamente! Non sarebbe un sacrificio se non lo facessimo, non ti pare? Ma non preoccuparti, sarà relativamente indolore.

— Relativamente? Relativamente rispetto a che cosa? — Scuotivento prese in mano un’altra bottiglia verde piena di vino di medusa e la scagliò contro Garhartra. Questi alzò una mano come per proteggersi.

Dalle sue dita si sprigionò una fiamma di ottarino e l’aria si fece improvvisamente spessa e untuosa al tatto, cosa che indicava una potente scarica di magia. La bottiglia rallentò e rimase a ruotare a mezz’aria.

Al tempo stesso una forza invisibile afferrò Scuotivento e lo scaraventò lontano, inchiodandolo senza respiro alla parete di fondo, dove rimase appeso a bocca aperta dalla rabbia e dallo stupore.

Garhartra abbassò la mano e se la passò lentamente sulla veste. — Sai, non mi è piaciuto trattarti così.

— Me ne sono accorto — borbottò Scuotivento.

— Ma perché volete sacrificarci? — domandò Duefiori. — Ci conoscete appena!

— È proprio questo il punto, no? Non è molto educato sacrificare un amico. Inoltre, siete stati indicati con precisione. Non ne so molto del dio in questione, ma Egli è stato molto chiaro su quel punto. Sentite, devo andare, adesso. Ho tante cose da organizzare, sapete com’è. — Il vecchio aprì la porta e si voltò con un’ultima occhiata. — Vi prego di mettervi comodi e di non preoccuparvi.

— Ma in realtà non ci hai detto nulla! — si lamentò Duefiori.

— Non ne vale la pena, no? Dato che sarete sacrificati in mattinata, diventa inutile sapere, davvero. Dormite bene. Relativamente bene, comunque.

Chiuse la porta. Intorno a essa balenò una scintilla di ottarino: stava a indicare che adesso per aprirla a nulla sarebbe valsa la perizia di un fabbro terreno.

Gling, clang, tang, facevano i campanelli lungo la Circonferenza nella notte illuminata dalla luna ed echeggiante del rombo della cascata.

Terton il guardiano della quarantacinquesima Lunghezza, non aveva udito un clangore simile dalla notte, cinque anni prima, in cui un mostro marino gigante era stato spinto all’interno della Palizzata. Si sporse fuori dalla sua capanna a scrutare l’oscurità. Per mancanza di un isolotto adatto in quel tratto della Circonferenza, la capanna era costruita su palafitte di legno, infisse nel fondale marino. Una volta o due gli parve distinguere un movimento, a grande distanza. Di fatto, avrebbe dovuto uscire in mare per scoprire la causa di tutto quello strepito. Ma lì, nell’umida oscurità, questa non sembrava un’idea molto allettante, così lui richiuse la porta, avvolse dei sacchi intorno ai campanelli impazziti e cercò di riaddormentarsi.

Ma non funzionò, perché adesso anche la Palizzata tambureggiava, come ci rimbalzasse contro qualcosa di grosso e pesante. Dopo avere contemplato per qualche minuto il soffitto ed essersi sforzato di non pensare a grossi, lunghi tentacoli e occhi larghi come uno stagno, Trenton soffiò sulla lanterna e socchiuse la porta.

Qualcosa stava venendo lungo la Palizzata, a balzi di qualche metro alla volta. Quel qualcosa gli si parò davanti e per un attimo Trenton scorse una sagoma rettangolare, dalle molte gambe, ricoperta di alghe e molto incollerita… benché mancasse assolutamente di lineamenti dai quali lui poteva dedurlo.