Il mostro investì la capanna che andò in frantumi. Trenton si salvò la vita aggrappandosi alla Circonferenza: qualche settimana dopo fu raccolto da una flotta di salvataggio che tornava alla base; in seguito scappò da Krull dopo avere dirottato una lente (avendo sviluppato l’idrofobia a un grado incredibile) e dopo un certo numero di avventure arrivò al Grande Net, una zona del Disco tanto asciutta da avere piovosità negativa, e che pure lui riteneva fastidiosamente umida.
— Hai provato la porta?
— Sì — rispose Duefiori. — Ed è sempre chiusa come l’ultima volta che me lo hai chiesto. Però c’è la finestra.
— Una bella via di fuga — borbottò Scuotivento, sempre appollaiato a metà parete. — Hai detto che da sul Bordo. Basta fare un passo, eh, tuffarsi nello spazio e forse gelare o finire a incredibile velocità su un altro mondo oppure sprofondare nel cuore fiammeggiante di un sole?
— Vale la pena di provare — disse l’ometto. — Vuoi un biscotto?
— No!
— Quando scendi giù?
Scuotivento brontolò, in parte per l’imbarazzo. L’incantesimo di Garhartra era stato il Rovesciamento della Gravità Personale di Atavarr, un incantesimo poco usato e difficile da padroneggiare. Così in pratica, finché esso non si esauriva, il corpo di Scuotivento era convinto che "giù" si trovasse a novanta gradi dalla direzione normalmente considerata come tale dagli abitanti del Disco. Di fatto lui stava sul muro.
Nel frattempo la bottiglia che aveva lanciato era sospesa nell’aria a qualche metro di distanza. Nel suo caso il tempo era stato… be’, non esattamente fermato, ma rallentato di diversi ordini di grandezza e fino a quel momento la sua traiettoria aveva impiegato diverse ore, ma appena cinque centimetri agli occhi di Scuotivento e Duefiori. Il vetro brillava nella luce lunare. Il mago sospirò e cercò di mettersi comodo sul muro.
— Perché tu non ti preoccupi mai? — esclamò in tono petulante. — Eccoci qui, pronti a essere sacrificati domattina a un qualche dio, e te ne stai lì seduto a mangiare canapés di crostacei.
— Mi aspetto che succeda qualcosa.
— Voglio dire, nemmeno sappiamo perché saremo uccisi — insisté il mago.
— Vorresti saperlo, vero?
— Sei tu che l’hai detto? — domandò Scuotivento.
— Detto cosa?
— Sei tu che senti delle cose — disse la voce nella testa di Scuotivento.
Lui scattò a sedere di sghembo. — Chi sei? — chiese.
Duefiori gli diede un’occhiata preoccupante. — Di sicuro te lo ricordi?
L’amico si prese la testa nelle mani e gemette: — È successo alla fine. Sto andando fuori di testa.
— Buona idea — disse la voce. — Qui dentro si sta facendo affollato.
L’incantesimo che teneva Scuotivento inchiodato al muro svanì con un debole pop. Lui cadde in avanti e finì in un mucchio a terra.
— Attento… mi hai quasi schiacciato.
Scuotivento si puntò sui gomiti e si frugò in tasca. Ne ritrasse la mano con dentro una ranocchia verde, gli occhi stranamente luminosi nella semiluce.
— Tu? — disse il mago.
— Mettimi a terra e allontanati. — La rana ammiccò.
Lui ubbidì e tirò via con sé lo stupefatto Duefiori.
La sala si fece buia e si udì un rumore come il rombo di vento. Dal nulla apparvero spirali di vapori verdi, porpora e ottarino che si misero a turbinare, sprizzando piccoli lampi, verso l’anfibio immobile. Ben presto esso scomparve in una nebbia dorata che si allungò verso l’alto e riempì la stanza di una calda luce gialla. Al suo interno, una forma indistinta che oscillava e si trasformava sotto i loro occhi. Tutto il tempo echeggiava il suono acuto, agghiacciante di un gigantesco campo magico…
Con la stessa rapidità con cui era apparso, il campo magico svanì. E lì nello spazio che era stato occupato dalla rana, c’era una rana.
— Fantastico — esclamò Scuotivento.
Il ranocchio gli diede un’occhiata di rimprovero.
— Davvero incredibile — commentò acido Duefiori. — Una rana trasformata per magia in una rana. Portentoso.
— Voltatevi — disse una voce dietro di loro. Era una morbida voce femminile, quasi invitante, il genere di voce con la quale vi piacerebbe bere qualcosa, ma veniva da un punto dove non avrebbe dovuto esserci una voce. I due si voltarono senza spostarsi, come statue che girassero sullo zoccolo.
Nella luce che precede l’alba si scorgeva una donna. Sembrava… era… aveva… in realtà lei…
In seguito Scuotivento e Duefiori non si trovarono d’accordo in nulla sul suo conto, salvo che lei era bella (senza potere precisare quali caratteristiche fisiche la facessero bella) e che aveva occhi verdi. Non il verde pallido degli occhi normali; i suoi erano verdi come smeraldi e iridescenti come libellule. E uno dei pochi fatti magici conosciuti da Scuotivento era che a nessun dio o dea, per quanto diversi e mutevoli sotto tutti gli altri aspetti, era possibile cambiare il colore e la natura dei loro occhi…
— L… — cominciò. Lei alzò una mano.
— Sai che se pronunci il mio nome devo andarmene — sibilò. — Tu sai di sicuro che sono l’unica dea che viene soltanto quando non è invocata?
— Uh. Sì. Suppongo di sì. — Il mago cercava di non guardarle gli occhi. — Tu sei quella che chiamano la Signora?
— Sì.
— Allora sei una dea? — Duefiori era eccitato. — Ho sempre desiderato incontrarne una.
Scuotivento si fece teso, temendo un’esplosione di rabbia. Invece la Signora si limitò a sorridere. — Il tuo amico mago dovrebbe presentarci — disse.
Scuotivento tossì. — Uh, già. Questo è Duefiori. Signora, lui è un turista.
— L’ho assistito in diverse occasioni…
— …e, Duefiori, questa è la Signora. Soltanto la Signora, capito? Niente altro. Non cercare di darle un altro nome, va bene? — proseguì ansioso. E intanto lanciava occhiate d’intesa di cui l’ometto non si accorgeva affatto.
Scuotivento rabbrividì. Naturalmente lui non era ateo; sul Disco gli dei trattavano severamente gli atei. Le poche volte in cui disponeva di spiccioli, lui aveva sempre badato a lasciar cadere delle monete nelle casse del tempio, basandosi sul principio che un uomo aveva bisogno di tutti gli amici possibili. Ma di solito lui non importunava gli dei e sperava di non esserne importunato a sua volta. La vita era giù abbastanza complicata.
Tuttavia, c’erano due dei veramente terrificanti. Gli altri somigliavano agli umani, solo più in grande, amanti del vino, della guerra, delle puttane. Ma il Fato e la Signora erano agghiaccianti.
A Ankh-Morpork, nel Quartiere degli Dei, il Fato aveva un tempietto di piombo, greve, dove i fedeli, sparuti e dagli occhi infossati, si radunavano nelle notti buie per compiere i loro riti, predestinati e inutili. Invece non esistevano templi dedicati alla Signora, benché ella fosse la dea più potente di tutta la storia della Creazione. Alcuni membri più audaci della Corporazione dei Giocatori una volta avevano tentato una forma di culto, nelle cantine più profonde della sede della Corporazione. E, tempo una settimana, erano tutti morti: vittime della miseria, di assassinio, o semplicemente della Morte.
Ella era la Dea Che Non Deve Essere Nominata. Coloro che la cercavano non la trovavano mai, eppure si sapeva che ella soccorreva quelli che si trovavano nel bisogno estremo. Però, a volte, non lo faceva. Era fatta così. Non le piaceva il tintinnio dei rosari, ma era attratta dal rumore dei dadi. Nessuno conosceva il suo aspetto, sebbene molte volte l’uomo che rischiava la vita al gioco, prendendo la sua mano di carte, si trovava a fissarLa dritto in faccia. Di tutti gli dei, Ella era al tempo stesso la più corteggiata e la più maledetta.
— Dalle mie parti non abbiamo dei — affermò Duefiori.
— Non è vero, sai — ribatté la Signora. — Tutti hanno gli dei. Solo non credete che siano tali.
Scuotivento si scosse. — Sentite — disse. — Non voglio sembrarvi impaziente, ma tra pochi minuti entreranno da quella porta e ci porteranno via per ucciderci.