— Anch’io non posso essere imbrogliato — disse seccamente il Fato.
"Così ho sentito." La Morte sogghignava sempre.
— Basta! — gridò il Fato e balzò in piedi. — Moriranno! — Svanì in un alone di fuoco azzurro.
la Morte annuì e continuò il suo lavoro. Dopo qualche minuto sembrò soddisfatta del filo della lama. Si alzò, puntò la falce alla grossa candela che bruciava sul bordo della panca e. con due rapidi movimenti, tagliò la fiamma in tre frammenti brillanti. La Morte sogghignò.
Poco dopo sellò lo stallone bianco che teneva nella stalla dietro il suo cottage. L’animale le diede un’annusatina amichevole. Benché avesse gli occhi rosso fuoco e i fianchi come seta lucente, era un cavallo in carne e ossa e, molto probabilmente, era trattato meglio di molti animali da soma che vivevano sul Disco. La Morte non era una cattiva padrona. Pesava pochissimo e, sebbene spesso tornasse con le sacche da sella rigonfie, queste non pesavano nulla.
— Tutti quei mondi! — esclamò Duefiori. — È fantastico!
Scuotivento grugnì e continuò a curiosare stancamente nella sala piena di stelle. L’amico si avvicinò a un complicato astrolabio, che aveva al centro, inciso nell’ottone e ornato da minuscoli gioielli, l’intero sistema Grande A’Tuin-Elefante-Disco. Stelle e pianeti gli ruotavano intorno su delicati fili d’argento.
— Fantastico! — ripeté. Tutt’intorno sulle pareti, delle costellazioni fatte di piccole perle fosforescenti risaltavano su grandi tappezzerie di velluto rerissimo e davano agli occupanti della sala l’impressione di galleggiare nel golfo interstellare. Su diversi cavalietti erano disposti schizzi della Grande A’Tuin. vista da varie parti della Circonferenza, ogni sua poderosa scaglia e cratere meticolosamente raffigurati. Duefiori si guardava intorno con sguardo sognante.
Scuotivento era profondamente turbato. Ciò che lo turbava di più erano due vestiti appesi nel centro della sala. Ci girava intorno a disagio.
Sembravano confezionati in pregiata pelle bianca, ornati di cinghie e tubicini di ottone e altri congegni sconosciuti e assai sospetti. Le gambe finivano in stivali alti e dalla suola spessa e le braccia erano infilate in grossi guanti morbidi. La cosa più strana erano i grandi caschi di rame da fissarsi evidentemente sui pesanti collari intorno allo scollo degli indumenti. Quasi certamente i caschi non servivano a proteggere; infatti una spada leggera non avrebbe avuto difficoltà a spaccarli, anche se non avesse colpito la ridicola finestrella sul davanti. Ogni elmo aveva in cima un pennacchio di piume bianche, che non ne migliorava certo l’aspetto generale.
Scuotivento cominciava ad avere un vago sospetto a proposito dei due vestiti.
Davanti ad essi stava un tavolo sul quale erano sparpagliate carte del cielo e pergamene coperte di numeri. Chi avesse indossato quegli indumenti, decise il mago, si proponeva con sprezzante audacia di andare dove nessun uomo (eccetto eventualmente uno sfortunato marinaio, che in realtà non contava) era andato prima. E lui adesso cominciava a nutrire non un semplice sospetto, ma un’orribile premonizione.
Si voltò e si vide osservato da Duefiori con aria meditabonda.
— No… — cominciò. L’altro lo ignorò.
— La dea ha detto che due uomini sarebbero stati inviati al di là del Bordo — disse, con gli occhi che gli brillavano. — E, ricordi, Tethis il troll ha detto che avrebbero avuto bisogno di protezione? I krulliani ci sono riusciti. Queste sono divise spaziali.
— Non mi sembrano molto comode — si affrettò a dire Scuotivento, che afferrò il turista per un braccio. — Quindi, se vogliamo andare, non c’è scopo a restare qui…
— Perché devi sempre avere paura? — La voce dell’amico era petulante.
— Perché ho visto passare davanti ai miei occhi tutta la mia vita, e non ci è voluto molto. Se non vuoi muoverti, me ne andrò senza di te perché sei capace, con ogni secondo che passa, di propormi di indossare…
La porta si aprì.
Due giovani robusti entrarono nella stanza. Indossavano soltanto un paio di brache di lana. Uno di loro si stava ancora asciugando vigorosamente. Entrambi salutarono i due fuggiaschi con un cenno del capo senza mostrare sorpresa.
Il più alto dei due si sedette su una panca davanti alle poltrone e disse: — ? TvØ yur âte hØ sooten gâtrunen?
Anche se Scuotivento si considerava un esperto nella maggior parte delle lingue delle zone occidentali del Disco, era la prima volta che si rivolgevano a lui in kruliiano, e non ne capiva una parola. Lo stesso valeva per Duefiori; ciò tuttavia non gli impedì di farsi avanti e prendere fiato.
In un’aura magica quale quella che circondava il Disco la luce viaggiava a velocità assai ridotta, non molto più rapida della velocità del suono in universi meno sintonizzati, ma era pur sempre la cosa più veloce che ci fosse in giro. A eccezione, in momenti come quello, della mente di Scuotivento.
In un attimo si rese conto che il turista si accingeva a sperimentare la sua specialità linguistica, ossia parlare nella sua lingua a voce alta e lentamente.
Il gomito del mago scattò lasciando il povero Duefiori senza fiato. Questi sbalordito e dolorante alzò gli occhi; l’amico colse il suo sguardo, tirò fuori una lingua immaginaria e la tagliò con un paio di forbici immaginarie.
Il secondo chelonauta (perché tale era la professione dei due uomini destinati ben presto a compiere il viaggio verso la Grande A’Tuin) alzò gli occhi dal tavolo delle carte, con l’ampia fronte aggrottata nello sforzo di parlare.
— ? HoØr yu latruin nØr u? — disse.
Scuotivento annuì con un sorriso e spìnse Duefiori nella sua direzione. Sospirò di sollievo dentro di sé quando l’amico si mise a osservare un grande telescopio di ottone posato sul tavolo.
— ! Sooten u! — comandò il chelonauta seduto. Scuotivento annuì, sorrise, prese dalla rastrelliera uno dei grossi elmetti di rame e lo calò sulla testa dell’uomo con tutte le sue forze. Quello si piegò in avanti con un gemito soffocato.
Il suo compagno fece un passo avanti, ma Duefiori gli sferrò con il telescopio un colpo da dilettante, ma efficace. L’uomo si abbatté sopra l’altro chelonauta.
Scuotivento e Duefiori si scambiarono uno sguardo.
— Va bene! — esclamò il mago, consapevole di avere perso una gara senza sapere esattamente quale. — Risparmiati il fiato. Qualcuno là fuori si aspetta che tra un minuto questi due tizi escano indossando i vestiti. Suppongo ci credessero degli schiavi. Aiutami a nasconderli dietro la tappezzeria e poi, e poi…
— …faremo meglio a vestirci — completò Duefiori, prendendo il secondo casco.
— Sì — disse Scuotivento. — Sai, appena ho visto i vestiti, ho saputo che avrei finito per indossarne uno. Non chiedermi come facevo a saperlo… forse perché era la cosa peggiore che poteva accadere.
— Bene, tu stesso hai detto che non avevamo una via di scampo. — L’ometto si stava passando dalla testa uno dei due vestiti e la sua voce veniva smorzata. — Qualsiasi cosa è meglio che venire sacrificati.
— Appena si presenta una possibilità, la cogliamo al volo. Non farti delle idee — gli disse l’amico.
Ficcò di furia un braccio nel vestito e batté la testa contro l’elmo. Qualcuno lassù lo osservava: questo fu il pensiero che gli attraversò la mente. — Mille grazie — esclamò amaramente.
Al confine della città e del paese di Krull c’era un vasto anfiteatro semicircolare, capace di ospitare diverse decine di migliaia di persone. La sua forma semicircolare era dovuta al fatto che l’arena si affacciava sul mare ribollente dalla cascata, molto più in basso. Adesso ogni posto era occupato e la folla si faceva irrequieta. Era venuta per assistere a un doppio sacrificio e anche al lancio della grande nave spaziale di bronzo. Nessuno dei due avvenimenti si era ancora prodotto.
L’Arciastronomo chiamò a sé il Capo controllore del lancio. — Allora? — chiese e in quelle poche lettere c’era un condensato di collera e di minaccia.