— Assi-cura-zione - Scuotivento ripeté. È una parola strana. Che significa?
— Be’, supponete di avere una nave carica, diciamo, di lingotti d’oro. Potrebbe trovarsi in mezzo a un uragano o potrebbe essere catturata dai pirati. Voi non volete che accada, così stipulate una assi-cura-zione.
"Io calcolo le probabilità che il carico vada perso, basandomi sui bollettini meteorologici e gli atti di pirateria degli ultimi venti anni, poi ci aggiungo un tot, poi voi mi pagate una certa somma di denaro in base a quelle probabilità…"
— …e il tot — disse Scuotivento agitando un dito con aria solenne.
— …e poi, se il carico va perso, io vi rimborso.
— Rimborso?
— Vi pago il valore del carico — spiegò pazientemente Duefiori.
— Ci sono. È come una scommessa, vero?
— Un azzardo? In un certo senso, sì.
— E voi ci guadagnate su questo… come-si-chiama?
— Certo, si ricava un profitto sull’investimento.
Avviluppato dal calore del vino, Scuotivento si provò a tradurre il tutto in termini del Mare Circolare.
— Non credo di capirci — dichiarò alla fine, guardando pigramente il mondo girare. — La magia, invece. La magia la capisco.
Duefiori ridacchiò. — La magia è una cosa e il suono-riflesso-dispiriti-sotterranei è un’altra.
— Il che?
— Che cosa?
— Quella buffa parola che avete usato — disse impaziente Scuotivento.
— Suono-riflesso-di-spiriti-sotterranei.
— Mai sentito.
Duefiori cercò di spiegarglielo.
Scuotivento cercò di capire.
Nel lungo pomeriggio visitarono la città. Duefiori andava avanti, portando al collo con una cinghia la strana scatola a immagini. Scuotivento si trascinava appresso: ogni tanto si lamentava e controllava se aveva ancora la testa sul collo.
Qualche cittadino li seguiva. In una città dove il ciclo quotidiano era punteggiato da esecuzioni pubbliche, duelli, combattimenti, rivalità tra maghi, gli abitanti avevano portato all’apice deila perfezione la professione di spettatore interessato. Tutti, senza eccezione, erano provetti guardoni. In ogni caso. Duefiori non si stancava di ritrarre la gente impegnata in attività tipiche (come le chiamava lui). E dato che un quarto di rhinu cambiava mano "per il loro disturbo", ben presto lo seguì una coda di attoniti e felici nouveaux riches, nel caso quel matto facesse venire giù una pioggia d’oro.
Al Tempio di Sek Settemani, i sacerdoti e gli artefici del trapianto rituale del cuore, riunitisi in fretta, convennero che la statua di Sek alta cento spanne era troppo sacra per farne un’immagine magica. Ma il pagamento di due rhinu li trovò sorprendentemente d’accordo sul fatto che forse Egli non era poi tanto sacro.
Una prolungata sessione alle Fosse delle Baldracche si concluse con una quantità di immagini pittoresche e istruttive. Scuotivento se ne nascose addosso un certo numero per potersele contemplare a suo agio in privato. Via via che il suo cervello si liberava dai fumi dell’alcol, il mago si mise seriamente a riflettere sul funzionamento dell’iconografo.
Anche un mago fallito sapeva che alcune sostanze sono sensibili alla luce. Forse le lastre di vetro erano trattate con un arcano procedimento che congelava la luce che le attraversava? Doveva essere qualcosa del genere. Spesso Scuotivento sospettava ci fosse qualcosa, da qualche parte, meglio della magia. E di solito rimaneva deluso.
Comunque, presto approfittò di ogni occasione per azionare la scatola. Duefiori glielo lasciava fare con grande piacere, perché così l’ometto compariva nelle immagini. Fu a questo punto che Scuotivento notò qualcosa di strano. Il possesso della scatola conferiva una sorta di potere a chi la maneggiava. Tutti, infatti, davanti a quell’ipnotico occhio di vetro, ubbidivano remissivi agli ordini anche i più perentori a proposito della posa e dell’espressione.
Il disastro si produsse mentre lui era così impegnato in Piazza delle Lune Rotte.
Duefiori si era messo in posa accanto a uno sbalordito venditore d’amuleti, sotto lo sguardo attento della folla dei suoi nuovi ammiratori in attesa di spassarsela per qualche sua lunatica manifestazione.
Scuotivento poggiò un ginocchio a terra per meglio inquadrare l’immagine e premette la levetta incantata.
La scatola disse: — Non serve. Ho finito il rosa.
Davanti ai suoi occhi si aprì uno sportello mai notato fino ad allora. Un piccolo umanoide, verde e orrendamente bitorzoluto, si sporse fuori, additò una tavolozza di colori che reggeva in una mano artigliata e gli gridò: — Niente rosa. Vedi? Non serve che continui a spingere la levetta quando non c’è più il rosa. Se volevi il rosa, non dovevi scattare tutte quelle immagini di fanciulle, no? D’ora in poi sarà solo monocromo. Va bene?
— Va bene. Sì. Certo — disse Scuotivento. Credette di vedere in un angolino scuro della scatola un cavalletto e un minuscolo letto sfatto. Avrebbe preferito non vederli.
— Mi auguro che ci siamo capiti — disse il diavoletto e chiuse la porta. A Scuotivento parve di udire un borbottio confuso e il rumore di uno sgabello trascinato sul pavimento.
— Duefiori… — cominciò e alzò gli occhi.
Duefiori era scomparso. Scuotivento fissò la folla mentre brividi di orrore gli correvano su per la spina dorsale. A un tratto si sentì pungere le reni.
— Girati senza fretta — disse una voce vellutata. — O di’ addio ai tuoi reni.
La folla l’osservava interessata. Si annunciava una giornata davvero memorabile.
Scuotivento si girò lentamente; sentiva la punta della spada grattargli le costole. All’estremità della lama riconobbe Stren Giunco: ladro, spadaccino crudele, concorrente insoddisfatto al titolo di uomo più cattivo del mondo.
— Salve — disse debolmente. Qualche passo più in là, due tizi dall’aspetto poco rassicurante avevano alzato il coperchio del Bagaglio e si indicavano eccitati le borse d’oro. Giunco sorrise. Sulla sua faccia solcata dalle cicatrici il sorriso ebbe un effetto sinistro.
— Ti conosco — disse. — Un mago da strapazzo. Che cos’è quella cosa?
Scuotivento si accorse che il coperchio del Bagaglio tremava leggermente, benché non ci fosse vento. E lui teneva ancora in mano la scatola a immagini.
— Questa? Serve a riprendere delle immagini — rispose in tono vivace. — Ehi, continua a sorridere, vuoi? — Indietreggiò rapido e puntò la scatola.
Giunco ebbe un attimo di esitazione. — Cosa?
— Bene così, non muoverti… — disse Scuotivento.
Il ladro rimase fermo, poi con un ringhio alzò la spada.
Ci fu uno snap e un duetto di grida tremende. Scuotivento non si guardò intorno per paura delle cose terribili che poteva vedere e quando Giunco lo cercò, lui era già dall’altro lato della piazza che se la dava a gambe.
L’albatro scendeva lentamente in larghi giri concentrici che terminarono in un arruffio di penne e un tonfo poco dignitosi quando atterrò pesantemente sulla sua piattaforma nel giardino degli uccelli del Patrizio.
Il custode degli uccelli sonnecchiava al sole; non si aspettava così presto un altro messaggio a lunga distanza dopo l’arrivo di quello del mattino. Saltò in piedi e sollevò lo sguardo.
Poco dopo si affrettava per i corridoi del palazzo; teneva in mano la capsula col messaggio e si succhiava la brutta ferita infertagli sul dorso dal becco dell’animale, ferita dovuta alla sua sbadataggine causata dalla sorpresa.
Scuotivento galoppava per il viale senza badare agli urli di rabbia provenienti dalla scatola; scavalcò un alto muro con la tunica sfilacciata che gli ondeggiava intorno come le piume arruffate di una cornacchia.
Atterrò nel cortile davanti a un negozio di tappeti, sparpagliando mercanzia e clientela, uscì a precipizio sul retro borbottando delle scuse, sfrecciò lungo un altro viale e si arrestò, barcollando pericolosamente, proprio mentre inavvertitamente stava per finire dentro l’Ankh.