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de’ benefizi che tra noi son corsi

pareggiar le ragioni, è noto al mondo                              115

qual rimarrebbe il debitor dei due.

Ma di ciò nulla: io fui fedele al Duca

fin che fui seco, e nol lasciai che quando

ei mi v’astrinse. Ei mi balzò dal grado

col mio sangue acquistato: invan tentai                            120

al mio signor lagnarmi. I miei nemici

fatto avean siepe intorno al trono: allora

m’accorsi alfin che la mia vita anch’essa

stava in periglio: a ciò non gli diei tempo.

Ché la mia vita io voglio dar, ma in campo,                     125

per nobil causa, e con onor, non preso

nella rete de’ vili. Io lo lasciai,

e a voi chiesi un asilo; e in questo ancora

ei mi tese un agguato. Ora a costui

più nulla io deggio; di nemico aperto                               130

nemico aperto io sono. All’util vostro

io servirò, ma franco e in mio proposto

deliberato, come quei ch’è certo

che giusta cosa imprende.

IL DOGE

E tal vi tiene

questo Senato: già tra il Duca e voi                                 135

ha giudicato irrevocabilmente

Italia tutta. Egli la vostra fede

ha liberata, a voi l’ha resa intatta,

qual gliela deste il primo giorno. È nostra

or questa fede; e noi saprem tenerne                              140

ben altro conto. Or d’essa un primo pegno

il vostro schietto consigliar ci sia.

IL CONTE

Lieto son io che un tal consiglio io possa

darvi senza esitanza. Io tengo al tutto

necessaria la guerra, e della guerra,                                145

se oltre il presente è mai concesso all’uomo

cosa certa veder, certo l’evento;

tanto più, quanto fien l’indugi meno.

A che partito è il Duca? A mezzo è vinta

da lui Firenze; ma ferito e stanco                                    150

il vincitor; voti gli erari: oppressi

dal terror, dai tributi i cittadini

pregan dal ciel su l’armi loro istesse

le sconfitte e le fughe. Io li conosco,

e conoscer li deggio: a molti in mente                              155

dura il pensier del glorioso, antico

viver civile; e subito uno sguardo

rivolgon di desio là dove appena

d’un qualunque avvenir si mostri un raggio,

frementi del presente e vergognosi.                                 160

Ei conosce il periglio; indi l’udite

mansueto parlarvi; indi vi chiede

tempo soltanto de sbranar la preda

che già tiensi tra l’ugne, e divorarla.

Fingiam che glielo diate: ecco mutata                              165

la faccia delle cose; egli soggioga

senza dubbio Firenze; ecco satolle

le costui schiere col tesor de’ vinti,

e più folte e anelanti a nove imprese.

Qual prence allor dell’alleanza sua                                  170

far rifiuto oseria? Beato il primo

ch’ei chiamerebbe amico! Egli sicuro

consulterebbe e come e quando a voi

mover la guerra, a voi rimasti soli.

L’ira, che addoppia l’ardimento al prode                        175

che si sente percosso, ei non la trova

che ne’ prosperi casi: impaziente

d’ogni dimora ove il guadagno è certo,

ma ne’ perigli irresoluto: a’ suoi

soldati ascoso, del pugnar non vuole                               180

fuor che le prede. Ei nella rocca intanto,

o nelle ville rintanato attende

a novellar di cacce e di banchetti,

a interrogar tremando un indovino.

Ora è il tempo di vincerlo: cogliete                                  185

questo momento: ardir prudenza or fia.

IL DOGE

Conte, su questo fedel vostro avviso

tosto il Senato prenderà partito;

ma il segua, o no, v’è grato; e vede in esso,

non men che il senno, il vostro amor per noi.                   190

(parte il Conte)

SCENA III

IL DOGE, e SENATORI

IL DOGE

Dissimil certo da sì nobil voto

nessun s’aspetta il mio. Quando il consiglio

più generoso è il più sicuro, in forse

chi potria rimaner? Porgiam la mano

al fratello che implora: un sacro nodo                              195

stringe i liberi Stati: hanno comuni

tra lor rischi e speranze; e treman tutti

dai fondamenti al rovinar d’un solo.

Provocator dei deboli, nemico

d’ognun che schiavo non gli sia, la pace                          200

con tanta istanza a che ci chiede il Duca?

Perché il momento della guerra ei vuole

sceglierlo, ei solo; e non è questo il suo.

Il nostro egli è, se non ci falla il senno,

né l’animo. Ei ci vuole ad uno ad uno;                             205

andiamgli incontro uniti. Ah! saria questa

la prima volta che il Leon giacesse

al suon delle lusinghe addormentato.

No; fia tentato invan. Pongo il partito

che si stringa la lega, e che la guerra                                210

tosto al Duca s’intimi, e delle nostre

genti da terra abbia il comando il Conte.

MARINO

Contro sì giusta e necessaria guerra

io non sorgo a parlar; questo sol chiedo,

che il buon successo ad accertar si pensi.                        215

La metà dell’impresa è nella scelta

del capitano. Io so che vanta il Conte

molti amici tra noi; ma d’una cosa

mi rendo certo, che nessun di questi

l’ama più della patria; e per me, quando                          220

di lei si tratti, ogni rispetto è nulla.

Io dico, e duolmi che di fronte io deggia,

serenissimo Doge, oppormi a voi,

non è il duce costui quale il richiede

la gravità, l’onor di questo Stato.                                    225

Non cercherò perché lasciasse il Duca.

Ei fu l’offeso; e sia pur ver: l’offesa

è tal che accordo non può darsi; e questo

consento: io giuro nelle sue parole.

Ma queste sue parole importa assai                                230

considerarle, perché tutto in esse

ei s’è dipinto; e governar sì ombroso,

sì delicato e violento orgoglio,

o Senatori, non mi par che sia

minor pensier della guerra istessa.                                   235

Finor fu nostra cura il mantenerci

la riverenza de’ soggetti; or altro

studio far si dovria, come costui

riverir degnamente. E quando egli abbia

la man nell’elsa della nostra spada,                                 240

potrem noi dir d’aver creato un servo?

Dovrà por cura di piacergli ognuno

di noi? Se nasce un disparer, fia degno

che nell’arti di guerra il voler nostro

a quel d’un tanto condottier prevalga?                            245

S’egli erra, e nostra è dell’error la pena,

ché invincibil nol credo, io vi domando

se fia concesso il farne lagno; e dove

si riscotan per questo onte e dispregi,

che far? soffrirli? Non v’aggrada, io stimo,                      250