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questo partito; risentirci? e dargli

occasion che, in mezzo all’opra, e nelle

più difficili strette ei ci abbandoni

sdegnato, e al primo altro signor che il voglia,

forse al nemico, offra il suo braccio, e sveli                     255

quanto di noi pur sa, magnificando

la nostra sconoscenza, e i suoi gran merti?

IL DOGE

Il Conte un prence abbandonò; ma quale?

un che da lui tenea lo Stato, e a cui

quindi ei minor non potea mai stimarsi;                            260

un da pochi aggirato, e questi vili;

timido e stolto, che non seppe almeno

il buon consiglio tor della paura,

nasconderla nel core, e starsi all’erta;

ma che il colpo accennò pria di scagliarlo:                       265

tale è il signor che inimicossi il Conte.

Ma, lode al ciel, nulla in Venezia io vedo

che gli somigli. Se destrier, correndo,

scosse una volta un furibondo e stolto

fuor dell’arcione, e lo gettò nel fango;                             270

non fia per questo che salirlo ancora

un cauto e franco cavalier non voglia.

MARINO

Poiché sì certo è di quest’uomo il Doge,

più non m’oppongo; e questo a lui sol chiedo:

vuolsi egli far mallevador del Conte?                               275

IL DOGE

A sì preciso interrogar, preciso

risponderò: mallevador pel Conte,

né per altr’uom che sia, certo, io non entro;

dell’opre mie, de’ miei consigli il sono:

quando sien fidi, ei basta. Ho io proposto                       280

che guardia al Conte non si faccia, e a lui

si dia l’arbitrio dello Stato in mano?

Ei diritto, anderà; tale io diviso.

Ma s’ei si volge al rio sentier, ci manca

occhio che tosto ce ne faccia accorti,                              285

e braccio che invisibile il raggiunga?

MARCO

Perché i princìpi di sì bella impresa

contristar con sospetti? E far disegni

di terrori e di pene, ove null’altro

che lodi e grazie può aver luogo? Io taccio                      290

che all’util suo sola una via gli è schiusa;

lo star con noi. Ma deggio dir qual cosa

dee sovra ogni altra far per lui fidanza?

La gloria ond’egli è già coperto, e quella

a cui pur anco aspira; il generoso,                                   295

il fiero animo suo. Che un giorno ei voglia

dall’altezza calar de’ suoi pensieri,

e riporsi tra i vili, esser non puote.

Or, se prudenza il vuol, vegli pur l’occhio;

ma dorma il cor nella fiducia; e poi                                  300

che in così giusta e grave causa, un tanto

dono ci manda Iddio; con quella fronte,

e con quel cor che si riceve un dono,

sia da noi ricevuto.

MOLTI SENATORI

Ai voti, ai voti!

IL DOGE

Si raccolgano i voti; e ognun rammenti                            305

quanto rilevi che di qui non esca

motto di tal deliberar, né cenno

che presumer lo faccia. In questo Stato

pochi il segreto hanno tradito, e nullo

fu tra quei pochi che impunito andasse.                           310

SCENA IV

Casa del Conte.

IL CONTE

Profugo, o condottiero. O come il vecchio

guerrier nell’ozio i giorni trar, vivendo

della gloria passata, in atto sempre

di render grazie e di pregar, protetto

dal braccio altrui, che un dì potria stancarsi                     315

e abbandonarmi; o ritornar sul campo,

sentir la vita, salutar di nuovo

la mia fortuna, delle trombe al suono

destarmi, comandar; questo è il momento

che ne decide. Eh! se Venezia in pace                            320

riman, degg’io chiuso e celato ancora

in questo asilo rimaner, siccome

l’omicida nel tempio? E chi d’un regno

fece il destin, non potrà farsi il suo?

Non troverò tra tanti prenci, in questa                             325

divisa Italia, un sol che la corona,

onde il vil capo di Filippo splende,

ardisca invidiar? che si ricordi

ch’io l’acquistai, che dalle man di dieci

tiranni io la strappai, ch’io la riposi                                  330

su quella fronte, ed or null’altro agogno

che ritorla all’ingrato, e farne un dono

a chi saprà del braccio mio valersi?

SCENA V

MARCO, e IL CONTE

IL CONTE

O dolce amico; ebben qual nova arrechi?

MARCO

La guerra è risoluta, e tu sei duce.                                   335

IL CONTE

Marco, ad impresa io non m’ accinsi mai

con maggior cor che a questa: una gran fede

poneste in me: ne sarò degno, il giuro.

Il giorno è questo che del viver mio

ferma il destin: poi che quest’alma terra                           340

m’ha nel suo glorioso antico grembo

accolto, e dato di suo figlio il nome,

esserlo io vo’ per sempre; e questo brando

io consacro per sempre alla difesa

e alla grandezza sua.

MARCO

Dolce disegno!                           345

non soffra il ciel che la fortuna il rompa...

o tu medesmo.

IL CONTE

Io? come?

MARCO

Al par di tutti

i generosi, che giovando altrui

nocquer sempre a sé stessi, e superate

tutte le vie delle più dure imprese,                                   350

caddero a un passo poi, che facilmente

l’ultimo de’ mortali avria varcato.

Credi ad un uom che t’ama: i più de’ nostri

ti sono amici; ma non tutti il sono.

Di più non dico, né mi lice; e forse                                  355

troppo già dissi. Ma la mia parola

nel fido orecchio dell’amico stia,

come nel tempio del mio cor, rinchiusa.

IL CONTE

Forse io l’ignoro? E forse ad uno ad uno

non so quai siano i miei nemici?

MARCO

E sai                          360

chi te gli ha fatti? In pria l’esser tu tanto

maggior di loro, indi lo sprezzo aperto

che tu ne festi in ogni incontro. Alcuno

non ti nocque finor; ma chi non puote

nocer col tempo? Tu non pensi ad essi,                           365

se non allor che in tuo cammin li trovi;

ma pensan essi a te, più che non credi.

Spregia il grande, ed obblia; ma il vil si gode

nell’odio. Or tu non irritarlo: cerca

di spegnerlo; tu il puoi forse. Consiglio                            370

di vili arti ch’io stesso a sdegno avrei,

io non ti do, né tal da me l’aspetti.

Ma tra la noncuranza e la servile

cautela avvi una via; v’ha una prudenza

anche pei cor più nobili e più schivi;                                375

v’ha un’arte d’acquistar l’alme volgari,

senza discender fino ad esse: e questa

nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.

IL CONTE

Troppo è il tuo dir verace: il tuo consiglio

le mille volte a me medesmo io il diedi;                            380

e sempre all’uopo ei mi fuggì di mente;

e sempre appresi a danno mio che dove

semina l’ira, il pentimento miete.

Dura scola ed inutile! Alfin stanco