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Con queste parole, Jurgens si avviò a grandi passi attraverso il cerchio di sabbia. Lansing gli gridò un avvertimento, ma il robot non diede segno di aver sentito. Lansing si lanciò, correndo per trattenerlo, perché il cerchio di sabbia, ora se ne rendeva conto, racchiudeva una sottile minaccia, qualcosa che tutti avevano riconosciuto, ad eccezione di Jurgens. Il robot continuava ad avanzare a grandi passi. Lansing ridusse la distanza e tese una mano per stringergli la spalla. Ma un attimo prima che le sue dita l’afferrassero, un ostacolo sepolto nella sabbia lo fece inciampare. Cadde bocconi.

Mentre si risollevava sulle mani e sulle ginocchia, scrollando la testa per liberarla dalla sabbia, sentì gli altri che gridavano, dietro di lui. La voce del generale di brigata tuonò più forte delle altre: — Torna indietro, stupido! Può esserci una trappola!

Jurgens era quasi arrivato al muro; non aveva rallentato il passo pesante e sicuro. Come se, pensò Lansing, quell’idiota avesse intenzione di caricarlo a testa bassa, di penetrarvi di slancio. E nello stesso istante in cui gli balenò in mente quel pensiero, il robot venne scagliato in aria, volò all’indietro torcendosi, e piombò sulla sabbia. Lansing alzò la mano per soffregarsi gli occhi, per schiarirsi la vista perché, nella frazione di secondo in cui Jurgens era stato gettato lontano, aveva creduto di scorgere qualcosa (come un serpente, forse, anche se non poteva esserlo) che emergeva fulmineo dalla sabbia, si avventava e poi spariva, troppo veloce perché l’occhio lo cogliesse nitidamente se non come un rapido guizzo nell’aria.

Jurgens era caduto sul dorso e adesso si girava su se stesso, aggrappandosi con entrambe le mani e spingendo con una gamba per scivolare lontano dal muro. L’altra gamba era inerte.

Lansing balzò in piedi e corse verso il robot. Lo afferrò per un braccio e cominciò a trascinarlo indietro, alla strada.

— Lasci, faccio io — disse qualcuno. Lansing alzò la testa e vide il reverendo, ritto accanto a lui. L’ecclesiastico si chinò, afferrò Jurgens intorno alla vita e se lo issò sulla spalla come un sacco di patate, barcollando leggermente sotto il peso.

Quando arrivò sulla strada, il reverendo posò a terra Jurgens, e Lansing gli s’inginocchiò accanto.

— Dimmi dove ti fa male — disse.

— Non mi fa male — rispose il robot. — Non sono equipaggiato per sentire dolore.

— Trascinava una gamba — disse Sandra. — La gamba destra. Non può servirsene.

— Qua — disse il generale di brigata. — Lascia, ti aiuto ad alzarti. Ti metto in piedi, e vediamo se ce la fai a reggere il tuo peso.

Tirò energicamente, rimise in piedi il robot e lo sorresse. Jurgens vacillò sulla gamba sinistra, cercando di appoggiare il peso sulla destra. La gamba destra si piegò. Il generale di brigata l’aiutò a mettersi seduto.

Mary disse: — È un problema meccanico. Possiamo dare un’occhiata. Ma è esclusivamente meccanico? Cosa ne dici, Jurgens?

— Credo che sia soprattutto meccanico — disse Jurgens. — Ma potrebbe esserci di mezzo qualcosa di biologico. Una funzione nervosa biologica. Non ne sono sicuro.

— Se avessimo qualche utensile — disse Mary. — Maledizione, perché non abbiamo pensato di comprarne qualcuno?

— Io ho una serie di utensili — disse Jurgens. — Una piccola serie, ma forse è sufficiente.

— Bene, così va meglio — disse Mary. — Forse potremo fare qualcosa per te.

— Qualcuno ha visto con precisione quello che è successo? — chiese Sandra.

Gli altri scrollarono la testa. Lansing non disse nulla. Non era certo di ciò che aveva visto, se pure aveva visto qualcosa.

— Qualcosa mi ha colpito — disse il robot.

— Hai visto cos’era? — chiese Sandra.

— Non ho visto niente. Ho solo sentito il colpo.

— È inutile che restiamo qui in mezzo alla strada — disse il generale di brigata. — Ci vorrà un po’ per effettuare le riparazioni. Troviamo un posto per accamparci. Ormai si avvicina la sera.

Trovarono un posto per accamparsi ai margini di un boschetto, a poco più di ottocento metri. Vicino c’era un ruscello che offriva la sua acqua. Alcuni alberi caduti offrivano la loro legna. Lansing aiutò Jurgens a procedere zoppicando e lo fece sedere in modo che potesse appoggiarsi a un albero.

Il generale di brigata intervenne. Disse a Mary: — Noi provvederemo ad accendere il fuoco e a cucinare e a fare quanto d’altro sarà necessario. Perché non si mette al lavoro con Jurgens? Lansing può aiutarla, se vuole.

S’incamminò per allontanarsi, poi tornò indietro. Disse a Lansing: — Io e il reverendo abbiamo discusso. Non molto amabilmente, ma abbiamo discusso. Il piccolo incidente che è successo prima, sul sentiero… abbiamo riconosciuto tutti e due di aver ecceduto. Pensavo che ci tenesse a saperlo.

— Grazie per avermelo detto — rispose Lansing.

IX

— Accidenti — disse Mary. — C’è quel dente d’arresto rotto, o almeno credo che sia un dente d’arresto. Se avessimo il pezzo di ricambio, potremmo rimetterlo in sesto.

— Mi dispiace — disse Jurgens. — È un pezzo di ricambio che non porto con me. Qualche pezzo normale, certo, ma quello no. Non posso portare tutti i pezzi di ricambio di cui potrei aver bisogno. La ringrazio, signora, per il lavoro che ha fatto. Sarebbe stato molto difficile, farlo da solo.

— La gamba è rigida — disse Lansing. — Non può piegare il ginocchio; e anche dopo la riparazione, l’articolazione dell’anca non funziona troppo bene.

— Posso muovermi — disse Jurgens. — Ma senza agilità. Dovrò camminare adagio. Rallenterò la marcia.

— Ti preparerò una gruccia — disse Lansing. — Forse impiegherai un po’ di tempo per imparare a servirtene; ma quando ti sarai abituato ti sarà d’aiuto.

— Per continuare il viaggio con voi — disse Jurgens, — sarei disposto a trascinarmi a carponi.

— Ecco i tuoi utensili — disse Mary. — Rimettili nella cassetta. È meglio che li riponi.

— Grazie — disse Jurgens. Prese la cassettina degli utensili, aprì lo sportello della cavità toracica, vi sistemò la cassetta e richiuse. Si battè la mano sul petto per assicurasi che lo sportello fosse bloccato a dovere.

— Credo che il caffè sia pronto — disse Mary. — La cena forse no, ma sento l’odore del caffè e ne vorrei una tazza. Edward, mi fa compagnia?

— Fra un momento — disse Lansing.

Accosciato accanto a Jurgens, la seguì con lo sguardo mentre lei si avviava verso il fuoco.

— Vada a bere il caffè — disse Jurgens. — Non è necessario che resti con me.

— Il caffè può aspettare — disse Lansing. — Poco fa hai detto qualcosa. Che saresti disposto a trascinarti carponi, pur di venire con noi. Jurgens, che cosa succede? Sai qualcosa che noi non sappiamo?

— Non so niente. Ma voglio venire con voi.

— Ma perché? Siamo un gruppo di profughi. Siamo stati strappati ai nostri mondi, alle nostre culture e non sappiamo perché siamo qui…

— Lansing, che cosa sa della libertà?

— Ecco, non molto, credo. Nessuno pensa alla libertà, fino a quando la perde. Nel posto da dove sono venuto io l’avevamo. Non dovevamo lottare per conquistarla. Era una cosa naturale, scontata. Ci pensavamo molto di rado. Non dirmi che tu…

— No, non nel modo che intende lei. I robot del mio mondo non sono oppressi. In un certo senso, credo, eravamo liberi. Ma avevamo un onere, una responsabilità. Aspetti, lasci che cerchi di spiegarglielo.

— Certo — disse Lansing. — Alla locanda hai detto che vi prendevate cura dei vostri umani e che voi ne avevate cura.

— Prima che parli io — disse Jurgens, — mi dica una cosa. Ha riferito quello che le spiegava il suo amico… mi pare abbia detto che farneticava, o qualcosa del genere. A proposito dei mondi alternativi, delle terre alternative che si scindevano l’uno dall’altro in certi punti critici. E lei ha detto, mi pare, che forse è accaduto proprio questo.