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— È strano — disse Mary. — Sono ingegnere, e dovrei avere un’idea di quello che può essere. Ma non riesco a riconoscere neppure una delle componenti.

— Non immagini che cosa fa?

— No, assolutamente.

— Abbiamo detto che è un macchinario.

— In mancanza di un termine più preciso — disse Mary.

Lansing si accorse che il suo corpo reagiva inconsciamente al ritmo del canto delle macchine, come se rispondesse a quella musica. Si insinuava in lui, come per formare una base della sua vita.

Si sta impadronendo di me, pensò: ma il pensiero giungeva da molto lontano, e non sembrava far parte di lui. Era come se fosse un altro a pensarlo. Si rese conto del pericolo e cercò di gridare un avvertimento a Mary, ma impiegò un po’ di tempo per riuscirci e, prima che potesse gridare, era divenuto un essere diverso.

Era alto molti anni-luce, ed ognuno dei suoi passi divorava molti trilioni di chilometri. Torreggiava nell’universo, e il suo corpo era rarefatto e tenue, un corpo che lampeggiava come una massa di lustrini nel bagliore dei soli ardenti che turbinavano e orbitavano intorno a lui. I pianeti non erano altro che ghiaia scricchiolante sotto i suoi piedi. Quando un buco nero gli bloccò il passo, lo buttò lontano con un calcio. Tese la mano per cogliere una mezza dozzina di quasar e li infilò su un filo di luce stellare per appenderseli intorno al collo.

Salì una collina formata da stelle ammucchiate. La collina era alta e scoscesa, e dovette arrampicarsi, aggrappandosi, e il suo movimento dislocò un gran numero delle stelle che formavano la collina, e le stelle caddero rotolando e rimbalzando, in fondo alla collina che non aveva fondo.

Raggiunse la vetta e si fermò, piantandosi a gambe larghe per tenersi saldo, e l’intero universo era disteso davanti a lui, fino al confine più lontano. Levò il pugno e lo scosse, gridando una sfida all’eternità, e gli echi del suo grido ritornarono a lui dalla curva più lontana dell’infinito.

Dal punto in cui si trovava vide la fine del tempo e dello spazio e rammentò che una volta s’era domandato che cosa c’era, al di là della fine del tempo e dello spazio. Ora lo vedeva, e barcollava sconvolto. Perse l’equilibrio e precipitò sul pendio della collina, e quando arrivò in fondo (ma non c’era il fondo), restò riverso in una massa di polvere interstellare e di gas che si agitava tutto intorno a lui e lo sbatacchiava furiosamente, come se fosse in preda a un mare in burrasca.

Ricordò ciò che aveva veduto al di là della fine del tempo e dello spazio, e gemette. E gemendo ritornò dov’era, in piedi sulla passerella metallica fiancheggiata dalle macchine esili che canticchiavano.

Mary lo stringeva per il braccio e tirava per farlo voltare. Stordito, non ancora certo di sapere dove fosse, seguì docilmente lo strattone e si voltò. La torcia elettrica era accesa sul pavimento. Si chinò per raccoglierla. La raccolse, ma per poco non cadde a bocconi.

Mary lo tirò di nuovo.

— Possiamo fermarci, adesso. Come ti senti?

— Mi riprenderò — disse Lansing. — Mi sento un po’ confuso. Ho visto l’universo…

— Allora è questo che hai visto.

— Vuoi dire che anche tu hai visto qualcosa?

— Quando mi sono ripresa — disse Mary. — Eri immobile, paralizzato. In un primo momento ho avuto paura di toccarti. Temevo che ti frantumassi in un milione di pezzi.

— Sediamoci — disse Lansing. — Sediamoci un momento.

— Non c’è posto per sederci.

— Sul pavimento — disse lui. — Possiamo sedere sul pavimento.

Sedettero sulla superficie dura della passerella, guardandosi in faccia.

— E così adesso sappiamo — disse Mary.

— Che cosa sappiamo? — Lansing scrollò la testa, per schiarirsi le idee. Lo stordimento si andava attenuando, ma era ancora confuso.

— Sappiamo qual è la funzione delle macchine. Edward, non possiamo parlare al generale di questo perderebbe la testa.

— Dobbiamo dirglielo — ribatté Lansing. — Ci siamo accordati con lui. Dobbiamo essere onesti.

— Ancora una volta — disse Mary, — si tratta di qualcosa di cui non sappiamo che fare. Come le porte.

Lansing girò la testa per guardare le macchine fragili. Adesso le vedeva più nitidamente. Lo stordimento stava passando.

— Hai detto di aver visto l’universo. Che cosa intendi, esattamente?

— Mary, Mary, Mary! Per favore, aspetta un momento.

— Ti ha sconvolto — disse lei.

— Sì, credo di sì.

— Io ne sono uscita facilmente.

— Grazie al tuo forte senso d’auto-percezione.

— Non scherzare — disse Mary. — Non cercare di buttarla in scherzo. È una cosa seria.

— Lo so. Scusami. Tu vuoi sapere, e cercherò di dirtelo. Ho visitato l’universo. Ero altissimo, immenso. Avevo un corpo di luce stellare, forse una coda di cometa. Era come un sogno, ma non esattamente un sogno. Ero veramente là. Sì, è ridicolo, ma ero là. Ho scalato una collina formata di stelle ammucchiate insieme e, dalla vetta, ho visto l’universo, l’intero universo, fino alla fine del tempo e dello spazio, dove il tempo e lo spazio si esauriscono. Ho visto quello che c’era al di là del tempo-spazio, e non ricordo esattamente che cosa fosse. Il Caos. Forse è il nome adatto. Un niente vorticante, un niente furioso. Non avevo mai pensato che il nulla potesse essere una collera. È questo che mi ha sconvolto. E quando dico furioso, non intendo che era rovente. Era freddo. Non dal punto di vista della temperatura, era impossibile conoscere la temperatura. Freddo in un senso esiziale, velenoso. Indifferente. Peggio che indifferente. In collera contro tutto ciò che esiste, contro tutto ciò che è mai esistito. Smanioso di afferrare tutto ciò che non è il nulla e di annientarlo.

Mary mosse le mani in un gesto comprensivo. — Non avrei dovuto chiedertelo. Non avrei dovuto insistere. Scusami se ti ho costretto a parlarne. Non ti è stato facile.

— Volevo dirtelo. Te l’avrei detto in ogni caso, ma forse non subito. Comunque ormai è fatta e mi sento più tranquillo. Parlandotene, in un certo senso me ne sono liberato. Di quello che mi hanno fatto… che ci hanno fatto. Hai detto di averlo visto anche tu.

— Non è stata la stessa cosa. Era meno evidente. Sono sicura che è stata la macchina. Prende la tua mente, il tuo io, la forza vitale, la personalità, te la strappa e la porta altrove. Hai detto che è stato come un sogno, eppure non era un sogno. Io credo che fosse realtà. Una macchina non può avere il concetto di sogno. Se fosse possibile che qualcuno andasse dove sei stato tu, nella realtà, vedrebbe quello che hai visto. C’erano assurdità, naturalmente…

— Ho allontanato con un calcio un buco nero. Ho scalato una montagna di stelle. I pianeti scricchiolavano come ghiaia sotto i miei piedi, quando li calpestavo.

— Queste sono le assurdità, Edward. La reazione, la ribellione della tua mente. Un meccanismo difensivo con il compito di salvarti la ragione. L’elemento del riso. La sghignazzata, per dimostrare che non te ne importava.

— Tu credi che fossi veramente là? Che la mia mente fosse davvero là?

— Senti — disse lei, — dobbiamo ammetterlo. Gli abitanti di questa città erano scienziati abilissimi, tecnici straordinari. Dovevano esserlo per forza di cose, per produrre questo macchinario e le porte e lo schermo grafico del generale. Le loro menti e le loro finalità seguivano direttrici diverse dalle mie e dalle tue. Cercavano spiegazioni alle quali noi non penseremmo mai. Per quanto possano essere assurde, le porte sono comprensibili. Ma quello che c’è qui non è comprensibile. Sotto certi aspetti, può essere un’eresia scientifica.

— Se continui a parlare così ancora per un po’, finirai per convincermi.

— Dobbiamo affrontare la realtà. Siamo alle prese con un mondo che non comprendiamo. Siamo alle prese con ciò che ne resta. Dio sa che cosa avremmo trovato qui, al culmine della loro cultura. Può darsi che siano concetti umani. Anzi, credo che lo siano. Sono quel tipo di progetti ambiziosi e ubriacanti che la razza umana potrebbe proporsi. Ma per il fatto stesso che sono tanto stranamente umani, possono sembrarci più alieni di qualcosa creato da una razza di qualche lontanissimo sistema solare.