— Qualcuno riusciva a vincere? — chiese Mary.
— Non ricordo. Non credo che vincessimo mai. Nessuno vinceva, no. Ma non ci dispiaceva, naturalmente. Era soltanto un gioco.
— Questo gioco è una realtà — disse cupamente Jorgenson. — Abbiamo puntato le nostre vite.
— Vi sono alcuni scettici — disse Lansing, — pronti a sostenere che non esiste un principio permanente nell’universo. Poco prima di lasciare il mio mondo ho parlato con un uomo, un mio amico, un amico chiacchierone, il quale sosteneva che l’universo potrebbe operare a caso, o anche peggio. Non posso crederlo. Dev’esserci un elemento di razionalità. Devono esistere causa ed effetto. Deve esistere una finalità, anche se qualche altro essere, più intelligente, ce lo esponesse e ce lo spiegasse dettagliatamente, forse non riusciremmo comunque a comprenderlo.
— Allora non ci sono molte speranze per noi — disse Jorgenson.
— No, credo che non ci siano. Ma forse può significare che c’è qualche speranza. Non siamo completamente allo sbando.
— Ci sono misteri — disse Jurgens, — e sto parlando nel senso migliore della parola, non nella sua connotazione più volgare e sensazionale, ci sono misteri che si possono districare, se ci si mette d’impegno.
— Abbiamo chiesto alla locandiera che cosa c’è, più avanti — disse Melissa. — Ma non ha saputo dirci quasi nulla.
— Esattamente come quel briccone della prima locanda — disse Jorgenson. — Quello ci aveva parlato soltanto del cubo e della città.
— La locandiera — disse Melissa, — sostiene che più avanti, a una certa distanza, troveremo una torre che canta. Ed è tutto. A parte questo, dice che dovremmo viaggiare verso ovest, non verso nord. A nord, dice, c’è il Caos. Il Caos, con l’iniziale maiuscola.
— Quella non sa che cos’è il Caos — disse Jorgenson. — Conosce la parola e basta. Rabbrividisce, quando la pronuncia.
— Allora ci dirigeremo verso nord — disse Jurgens. — Io tendo a insospettirmi quando qualcuno sconsiglia di percorrere una certa strada. Ho la sensazione che là si possa trovare qualcosa che non dovremmo trovare.
Lansing finì di bere e posò il boccale sul tavolo. Si alzò lentamente, attraversò lo stanzone e si accostò alla tavola dove i quattro stavano giocando a carte.
Restò fermo per lunghi istanti, e nessuno dei quattro gli prestò la minima attenzione: come se non l’avessero visto avvicinarsi. Poi uno alzò la testa e la girò per guardarlo.
Lansing indietreggiò d’un passo, inorridito. Gli occhi erano fori bui nel teschio, due sferule d’ossidiana nera. Il naso non era un naso: erano due fenditure che servivano per respirare, intagliate nello spazio tra gli occhi e la bocca. La bocca era un altro squarcio, privo di labbra. Il mento non esisteva: la faccia si fondeva nel collo in una linea obliqua.
Lansing girò sui tacchi e si allontanò. Quando tornò al tavolo accanto al fuoco sentì Sandra esclamare, con uno strano tono melodioso: — Non vedo l’ora di raggiungere la torre che canta!
XXIII
Raggiunsero la torre che cantava il quarto giorno, dopo aver lasciato la locanda.
La torre non era una torre. Era un ago. Sorgeva sulla vetta di un alto colle e puntava verso il cielo come un dito. Alla base aveva un diametro di circa due metri, e saliva affusolandosi, aguzza, fino a una trentina di metri dal suolo. Era di un colore rosa piuttosto sgradevole, ed era fatta d’una sostanza simile a quella del cubo. Plastica, si disse Lansing, sebbene fosse quasi sicuro che non era plastica. Quando posò la mano sulla superficie, percepì una lieve vibrazione, come se il vento che spirava dall’ovest e la investiva la facesse fremere in tutta la sua altezza, come una inverosimile corda di violino, libera e affusolata, che vibrasse al tocco dell’archetto.
Ad eccezione di Sandra, rimasero tutti delusi della musica che produceva. Anzi, Jorgenson disse che non era musica… era soltanto un rumore. In genere non era molto forte, sebbene a volte divenisse un poco più alta. Sembrava, pensò Lansing, musica da camera, sebbene non conoscesse molto bene quel genere di musica. Molto tempo prima, rammentava, una domenica pomeriggio Alice era riuscita a trascinarlo a un concerto, e lui aveva sofferto in silenzio ma acutamente per due ore intere. Eppure, sebbene quasi sempre fosse una musica sommessa, aveva una fantastica potenza trascinatrice. Avevano sentito le prime frasi portate dal vento il pomeriggio del terzo giorno.
Sandra era andata subito in estasi; era rimasta affascinata, sebbene ne udisse appena qualche brano. Si era opposta all’idea di accamparsi, quella notte.
— Non possiamo proseguire? — aveva chiesto. — Forse possiamo raggiungere la torre prima che la notte finisca. Non siamo tanto stanchi, e potremo camminare al fresco.
Lansing aveva rifiutato, piuttosto bruscamente, quella proposta di viaggiare di notte.
Sandra non aveva discusso. Non aveva dato una mano a preparare la cena, contrariamente alla sua abitudine, e si era avviata su un piccolo dosso che sovrastava il campo. Era rimasta lì, ritta, minuta ed esile nel vento, ad ascoltare. Aveva rifiutato di mangiare e non aveva dormito. Era rimasta tutta la notte sull’altura.
Ora che avevano salito l’alto colle fino alla vetta, dove sorgeva la cosiddetta torre, era sempre in trance. S’era fermata in disparte con la testa rovesciata all’indietro, a fissare la torre, ascoltando con ogni fibra del suo essere.
— A me non fa nessun effetto — disse Jorgenson. — Chissà cosa ci trova, quella?
— Non ti fa nessun effetto — ribatté Melissa, — perché non hai anima. Qualunque cosa tu possa dire, è musica, anche se è una musica molto strana. A me piacciono i ballabili. Ballavo moltissimo, io. Ma questa non è una musica per ballare.
— Sono preoccupata per Sandra — disse Mary a Lansing. — Non ha mangiato più nulla, da quando abbiamo sentito le prime note della musica, e non ha dormito. Che cosa possiamo fare?
Lansing scrollò la testa. — Lasciamola in pace, per un po’.
Quando fu pronto il pasto della sera, Melissa portò un piatto a Sandra e insistette fino a quando riuscì a farla mangiare. Ma non mangiò molto, e non parlò affatto.
Mentre stava seduto accanto al fuoco e fissava la donna profilata contro il cielo occidentale colorato dal tramonto, Lansing ricordò che lei aveva atteso con tanta ansia di raggiungere la torre che cantava. La prima notte, dopo che erano partiti dalla locanda, aveva detto: — Potrebbe essere bellissimo. Spero che lo sia! C’è così poca bellezza in questo mondo. Un mondo privo di bellezza.
— Tu vivi per la bellezza — le aveva detto Lansing.
— Oh, sì, è vero. Per tutto il pomeriggio ho cercato di comporre una poesia. C’è qualcosa, qui, da cui si potrebbe ricavare una poesia… qualcosa di bello che scaturisce in un luogo di brutture. Ma non riesco a incominciare. So che cosa vorrei dire, ma il pensiero e le parole non si armonizzano.
Ed ora, seduto accanto al fuoco a guardarla, così stregata dalla musica che non incantava nessun altro, Lansing si chiese se aveva fatto qualche progresso con la sua poesia.
Jorgenson stava dicendo a Jurgens: — Quando eravamo alla locanda, hai detto che avremmo dovuto dirigerci verso nord. L’ostessa ci ha sconsigliato di andare a nord, e tu hai detto che t’insospettisci quando qualcuno ti mette in guardia, e se qualcuno dice di non andare in un dato posto, è là che bisogna andare. Ci sono sempre tentativi, hai detto, di mettere fuori pista, durante una cerca.
— È verissimo — rispose Jurgens. — Credo che il mio ragionamento sia logico.
— Ma siamo andati verso ovest, non verso nord.